Quanto dura una rivoluzione? Finché ti scalda il cuore, risponde il romantico. Finché le sue idee non invecchiano talmente male da deflagrare nella tragedia, o nel ridicolo. Se ti va male tutti e due assieme, risponde chi ha navigato qualche anno in più attraverso i saliscendi della vita. Per fortuna ci sono le immagini, che invecchiano meno, cristallizzano il momento in un eterno presente, dove il fuoco sembra bruciare sempre come quel giorno.

L’immagine per questa storia ce l’abbiamo, ed è pure tanta roba. Campus di Berkeley, California, migliaia di studenti ammassati e, nel mezzo, una macchina della polizia. Sul tettuccio, un ragazzo con una  giacca leggermente più grande della sua taglia. Scalzo. Si può fare una rivoluzione senza scarpe? Chiedetelo a Mario Savio.

Già, basta il nome per intuire che in questa storia sventola un po’ di tricolore, anche se qui da noi in tanti non l’hanno mai sentita. Parla la lingua della famiglia Savio, Giuseppe e sua moglie, che da Santa Caterina, piccolo paese arrampicato sulle colline siciliane, partono alla ricerca della loro America. La trovano a New York, più precisamente nel Queens e in un lavoro in fonderia. Lì nasce Mario, che qualche anno più tardi attraverserà gli States per iscriversi a University of California, il Pacifico davanti agli occhi.

Mario Savio

Le rivoluzioni non nascono in un giorno, ma crescono silenziose, si annidano nello stomaco e si nutrono di cielo bigio e disillusione. Fermentano. Fino al giorno in cui la schiuma sale e senti che non è più possibile trattenerla, che non è giusto. Berkeley nei primi anni ’60 è qualcosa più di un’università. Un campus dove ogni giorno circa 20mila studenti mettono in discussione le fondamenta della società. Un laboratorio per quello che accadrà, anche in Europa, qualche anno più tardi.

Già arrestato una volta per una manifestazione non autorizzata, Mario Savio passa l’estate del 1964 bussando ad ogni casa del Mississippi abitata da afroamericani. Per convincerli ad iscriversi alle liste elettorali. Per votare, far sentire la propria voce.

Che voce ha una rivoluzione? It sounds like a whisper, come un sussurro, secondo Tracy Chapman. All’inizio di sicuro, poi la brezza cresce, e ora è un vento di tempesta che porta con sé rabbia e gioventù. Ormai è autunno, il rettore Clark Kerr da mesi si scontra con gli studenti in agitazione alla ricerca del diritto di parola. Dichiara che «l’università è una fabbrica il cui compito è riempire delle teste vuote, plasmarle e farle lavorare per il sistema».

I ragazzi urlano, manifestano, è il primo di ottobre. Arriva la polizia per ristabilire l’ordine e Mario viene fermato. Gli uomini in divisa ringhiano, lui si toglie le scarpe. Sale sul tetto della macchina dove lo stanno rinchiudendo e parla agli studenti. Non è mai successo prima. La folla guarda e attende, alla fine esulta. Nasce praticamente in quell’istante il Free Speech Movement, il primo movimento associativo di studenti che la storia ricordi.

Free Speech Monument, Sproul Plaza – Berkeley

Abbiamo l’immagine da tramandare ai posteri. Abbiamo anche un volto ormai diventato simbolo, ora ci serve una frase. Perché alle rivoluzioni servono testi da mandare a memoria per riempire le falle delle motivazioni. Come nelle cento pagine de L’insurrection qui vient, libro di riferimento per i rivoluzionari di mezzo mondo. “Da qualsiasi angolo lo prendiate, il presente non offre alcuna via di uscita”, sono le sue prime parole.

Sono poche le frasi di Savio rimaste nella storia. Il suo discorso più famoso, Operation of the machine, lo pronuncia un paio di mesi dopo, il 2 dicembre, sempre a Berkeley. Un’altra protesta.

«…se il presidente Kerr nei fatti è il direttore, allora vi dico una cosa: la facoltà è un gruppo di dipendenti! E noi siamo la materia prima! Ma siamo un mucchio di materie prime che non intendono essere lavorate in qualsiasi modo, non intendono essere messe in qualche prodotto, non vogliono finire per essere acquistate da alcuni clienti dell’università, siano essi il governo, siano essi industriali, siano essi sindacati, siano essi nessuno! Siamo esseri umani!

Se tutto è una macchina, c’è un tempo in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa sentire così male al cuore, che non possiamo più partecipare; non possiamo neanche partecipare passivamente, dobbiamo mettere in nostri corpi in mezzo alle ruote e agli ingranaggi, sulle leve, su tutto l’apparato, dobbiamo farlo finire. E dobbiamo dire chiaramente al popolo, a chi sta guidando tutta la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che, a meno che non siamo liberi, impediremo a questa macchina di funzionare».

Quel giorno la polizia arresta 792 studenti, ma questo non impedirà al Free Speech Movement di continuare la sua corsa, dilagare in quasi tutte le università americane e diventare una delle colonne dell’opposizione alla guerra in Vietnam. Anche il 1968 e il maggio di Parigi partono da lì.

Diritto di parola, libertà di espressione, automi che lavorano per il sistema. Sono passati quasi sessant’anni e certi concetti sono ancora qui con noi. Patrimonio di tutti. Il che significa che ognuno può farli propri ed esercitarli. Detta così sembrerebbe proprio una grande vittoria per la rivoluzione. Solo che, oggi, certi principi te li ritrovi manipolati assieme ad altre fesserie tipo i complotti mondiali, presunte dittature politico-sanitarie e pindariche interpretazioni sulla virologia in genere.

Mi è addirittura apparsa l’immagine di uno Stefano Puzzer trasfigurato in un’aura da mistico indiano e, sotto, un paragone con Primo Levi. Tragedia o ridicolo, dicevo prima. Sinceramente in questo momento faccio fatica a distinguere. Forse sono solo rischi da correre, per la rivoluzione.

Nel 1964 Mario Savio ha 22 anni, non diventerà un politico e non farà strada al Congresso. Si laurea, insegna, sarà preside della Sonoma University, l’FBI investigherà su di lui e nella vita farà anche il commesso. Di quei pomeriggi californiani restano le parole. «Sapevo solo di doverlo fare. Era uno di quegli atti d’amore di cui parlava Kierkegaard: quelli che, quando ti guardi indietro, capisci che non potevano essere evitati», dirà in una delle poche interviste rilasciate in seguito. Parole che a Berkeley, ancora oggi, potete trovare affisse un po’ ovunque in giro per il campus. I Mario Savio’s steps.

Mario Savio muore con discrezione il 6 novembre 1996, venticinque anni fa, forse con la consapevolezza che difficilmente gli uomini sopravvivono alle proprie rivoluzioni. Concludeva così un suo discorso alla cerimonia di laurea del figlio Nadav nel 1988: «Ora che vedo mio figlio e i suoi compagni nel giorno della laurea, vedo intelligenza, carattere, buona capacità di giudizio. Vi amiamo, siamo fieri di voi, abbiamo paura per voi».

Non lo so  quanto dura una rivoluzione. Non so nemmeno se il problema sia la rivoluzione stessa o chi si infiltra nei suoi battaglioni. Certi rivoluzionari moderni o sedicenti tali. So solo che Mario Savio non ha fatto fortuna, ma ha segnato un’epoca. E nelle università americane lo studiano. Perché nella storia ci puoi anche entrare con delicatezza, in punta di piedi. Senza scarpe.