A Roma il G20 tenta la fortuna
Il risultato del summit, confrontato con la gravità dell'allarme lanciato autorevolmente dall'IPCC l'agosto scorso, è stato come lanciare la monetina nella fontana di Trevi e affidarsi alla fortuna.
Il risultato del summit, confrontato con la gravità dell'allarme lanciato autorevolmente dall'IPCC l'agosto scorso, è stato come lanciare la monetina nella fontana di Trevi e affidarsi alla fortuna.
I rappresentanti dei Paesi che compongono il G20, responsabili dell’80% del Pil mondiale, si sono ritrovati a Roma per discutere dell’emergenza climatica del pianeta.
A tre mesi dalla pubblicazione dell’ultimo rapporto IPCC (Gruppo intergovernativo sui Cambiamenti Climatici) e a ridosso della COP26 di Glasgow, il compito principale era dimostrare l’effettiva consapevolezza del problema climatico e la determinazione nel perseguire gli obiettivi di transizione ecologica.
Nella conferenza stampa di fine lavori il premier Mario Draghi, in qualità di presidente, ha sintetizzato il risultato del summit annunciando che, per la prima volta, i Paesi partecipanti «riconoscono la validità scientifica dell’obiettivo di 1,5 gradi, un passo avanti rispetto agli accordi di Parigi», mentre sulla necessità di raggiungere la neutralità delle emissioni di CO2 «finora non c’era nessun impegno collettivo […] ora si parla di raggiungerlo entro o attorno al 2050».
Sottolineando che anche Russia, Cina e India «riconoscono la validità scientifica di tenere il riscaldamento globale entro il grado e mezzo di aumento ».
Insomma il testo finale del summit cancella la data del 2050 per la neutralità climatica, sostituendola con un più vago “entro o intorno alla metà del secolo” e trasferendo tutti i nodi irrisolti della trattativa globale alla Cop26 che in questi giorni entra nel vivo a Glasgow.
Affermazioni generali, vaghe su molti aspetti importanti, senza decisioni conseguenti. Un risultato che, confrontato con la gravità dell’allarme dell’IPCC, è stato come lanciare la monetina nella fontana di Trevi e affidarsi alla fortuna.
L’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi era stato già indicato nel 2015 dalla COP25 tenutasi a Parigi. Da allora sono trascorsi sei anni e, nonostante le solenni promesse di intervenire fatte dagli stessi componenti il G20, si è fatto poco e le emissioni sono aumentate.
Di conseguenza, nel 2021 i massimi esperti mondiali sul clima sono stati costretti ad affermare che non c’è più tempo, «a meno di riduzioni immediate, rapide e su scala globale delle emissioni di gas serra, limitare il riscaldamento della superficie della Terra a circa 1,5°C o addirittura 2°C sarà un obiettivo fuori da ogni portata».
Utile ricordare che i documenti elaborati dall’IPCC dal 1988, anno della sua istituzione presso le Nazioni Unite, sono stati alla base degli accordi internazionali sul clima, da Kyoto a Parigi. L’ultimo rapporto di 4000 pagine, redatto da 234 scienziati di 65 paesi, sintesi di 14.000 pubblicazioni scientifiche che hanno subito più di 78 mila verifiche, rappresenta il massimo di conoscenza sui cambiamenti climatici e fornisce le informazioni più affidabili ora disponibili.
Il vertice G20 romano è quindi arrivato con sei anni di ritardo e non si è dimostrato all’altezza della nuova situazione.
Draghi, consapevole della debolezza e poca consistenza dell’accordo raggiunto, forse memore del suo incontro a Milano con i giovani di Youth for Climate, intuendo l’importanza dell’opinione pubblica, ha sentito l’esigenza di ricordare che: «Saremo giudicati da quello che faremo. Vorrei ringraziare molti degli attivisti che ci spingono, ci mantengono tutti sul pezzo, anche quando dicono che sono stanchi di questi bla bla bla o che parliamo senza sostanza».
Ma «tenere vivi i sogni» come lo stesso Draghi ha poi auspicato, non è più ritenuto sufficiente dai giovani che stanno convergendo a Glasgow. Non c’è più tempo.
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