Giustizia per Giulio Regeni
L'Italia ha deciso di costituirsi parte civile nel processo sulla morte del ricercatore universitario, prendendo finalmente una posizione in una vicenda che fino ad ora l'aveva sempre vista tentennare.
L'Italia ha deciso di costituirsi parte civile nel processo sulla morte del ricercatore universitario, prendendo finalmente una posizione in una vicenda che fino ad ora l'aveva sempre vista tentennare.
Anche se gli slogan e gli striscioni appesi agli edifici di molta parte d’Italia in effetti chiedono “Verità per Giulio”, riteniamo che ormai ci siano ben pochi dubbi su cosa sia successo in Egitto al ricercatore friulano. È emerso chiaramente da documenti e testimonianze che Regeni era considerato un nemico dello Stato, che si era infilato in questioni molto pericolose e che lo Stato ha agito nei suoi confronti allo stesso modo applicato a tanti disturbatori della quiete egiziana prima di lui. Regeni è stato sequestrato, torturato e ucciso. Questa è la verità e il Presidente al-Sisi può anche fingere di non vedere, l’Europa può fingere che sia un sacrificio sostenibile in un più ampio contesto di collaborazione, ma la verità è ormai piuttosto inconfutabile.
Il passo successivo, altrettanto gravoso e complesso, riguarda la determinazione della responsabilità, il traguardo della giustizia per una morte tanto assurda. Per quanto riguarda il procedimento a carico di quattro alti ufficiali dell’esercito egiziano ci sono purtroppo luci e ombre. I magistrati della Corte d’Assise hanno determinato non sostenibile la tesi del giudice dell’udienza preliminare, rimandando il processo al punto di partenza. Il GIP aveva stabilito che l’assenza di notifica agli imputati (si ricorderà che il Governo egiziano rifiutò di comunicare gli indirizzi dei militari) non costituisse impedimento a procedere, vista la grande copertura mediatica internazionale riservata alle attività investigative prima e al processo poi. Non dello stesso avviso i magistrati che, in un gesto di garantismo che in altre situazioni troveremmo encomiabile, sostengono non esista prova che gli imputati avessero notizia del procedimento a loro carico o che – come proposto dal GIP – si siano volontariamente resi irreperibili. Una contumacia a loro insaputa, si potrebbe ironizzare, se la questione non fosse invece molto seria.
La famiglia non ha intenzione di mollare, continuerà la sua lotta e da qualche giorno è finalmente un pochino meno sola. È del 13 ottobre scorso la stringata nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri con cui la stessa “ha deciso di costituirsi parte civile nel processo sulla morte di Giulio Regeni”. Omicidio sarebbe stata la parola giusta ma, considerato il troppo tempo trascorso nel silenzio delle istituzioni di tutti i Governi che si sono susseguiti negli anni, beh ci si può accontentare di una frase incompleta. Tardiva, è evidente, ma di certo benvenuta e non meno pesante nella posizione con l’Egitto.
Per la sua posizione strategica nello scacchiere geopolitico, il Paese viene da tutti considerato un alleato irrinunciabile per la stabilità mediorientale, per il contrasto al terrorismo e per il contenimento dei flussi migratori. Nessuno si salva da questo modello perverso: gli Stati Uniti hanno concesso 1,3 miliardi di dollari in finanziamenti e il Fondo Monetario Internazionale a approvato due prestiti per un totale di 8 milardi di dollari, con condizioni di governance deboli e scarsa trasparenza sull’uso dei fondi. La World Bank ha approvato un progetto sanitario di 50 milioni di dollari, anche qui senza menzione alle intimidazioni e arresti dei medici che avevano criticato l’approccio dello Stato alla pandemia.
La UE aveva preso un impegno nel 2013 verso una gestione dei fondi al Paese africano vincolata a miglioramenti nel disastro dei diritti civili; sembra però che la questione migranti e la crisi libica abbiano fatto passare la questione in fondo alla lista. L’Europa critica ma non agisce, e al suo interno Francia e Italia scelgono di dimenticare l’impegno del Parlamento europeo e si contendono l’importante cliente a suon di contratti per armamenti e tecnologie di sorveglianza. Lo scorso giugno l’Italia ha annunciato un accordo di 11 miliardi di euro per forniture militari, con un iter peraltro diverso da quanto previsto dalla legge: a causa dello stato d’emergenza, il Governo ha di fatto esautorato il Parlamento, come avvenuto fin troppe volte in questi mesi incredibili.
Il presidente al-Sisi non ha fatto mancare la sua pronta risposta alle notizie dell’inizio del processo e, prima di sapere della sua mezza vittoria, ha dichiarato che “l’Egitto è un Paese che rispetta il suo popolo e non si sottomette ad alcun diktat”. In uno slancio ironico oltre il pensabile ha anche aggiunto che “voler imporre agli egiziani una visione occidentale (dei diritti fondamentali, si stava parlando, mica della minigonna – nda) è un approccio dittatoriale”.
Siamo insomma noi occidentali i pazzi visionari convinti che le libertà e i diritti siano inalienabili e irrinunciabili, siamo noi i veri dittatori a volere che il mondo segua il nostro modello palesemente sbagliato.
Il presidente fa proclami aberranti perché sa di poterlo fare. Sa che anche stavolta sarà praticamente impossibile far pagare ai colpevoli l’omicidio. Sa di essere l’ultimo responsabile ma è sicuro che non ci saranno conseguenze. Da troppo tempo il suo business repressivo funziona alla grande, premiato da cospicui aiuti da parte delle organizzazioni mondiali e dagli alleati militari.
Sembra incredibile ma pare che il procedimento iniziato in Italia sia il primo in assoluto, a carico dell’Egitto per questioni di diritti civili. L’organizzazione per i diritti umani con sede al Cairo ECRF, che tra l’altro rappresenta la famiglia Regeni in Egitto, afferma di aver documentato 2723 sparizioni forzate tra il 2015 e il 2020, mentre sono rarissime le azioni giudiziarie contro polizia e forza speciali, per non parlare delle condanne. Gli attivisti definiscono i metodi repressivi “sistematici ma anche sistemici” e accusano diversi livelli di rendersi complici delle continue violazioni e sopraffazioni ai civili. L’Egitto si trova al terzo posto nel mondo (dopo Cina e Iran) per le esecuzioni capitali e Human Rights Watch stima fino a centomila prigionieri politici detenuti nel Paese. A cui vanno aggiunti dissidenti e attivisti che si sono rifugiati all’estero, molto spesso in Turchia, per quel famoso detto che il nemico del tuo nemico è un carissimo amico. In questi mesi sono state emesse le prime sentenze che privano queste persone della cittadinanza egiziana, rendendoli apolidi a tutti gli effetti. La lunga mano del “metodo” li raggiunge ovunque.
Nonostante siano perfettamente consci che non sarà semplice arrivare a una condanna vera e propria, gli attivisti per i diritti umani accolgono con entusiasmo la decisione della procura di procedere davvero contro lo Stato egiziano, che per la prima volta vede messa a nudo la sua vera natura e deve rispondere di accuse formali e formalizzate. Altrettanto ben vista – e non solo dagli attivisti – la benedetta dichiarazione di parte civile da parte del Presidente del Consiglio. Il sig. Draghi ci ha abituati a scelte difficili ma efficaci, a quel “whatever it takes” che già un paio di volte ha salvato l’Europa. Speriamo che davvero si faccia tutto quel che serve anche in questo caso, facendo valere il peso diplomatico dell’Italia e di tutti i Paesi europei allineati nella stessa direzione.
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