Robert Francis Kennedy, uno dei leader del sogno democratico americano, viene colpito a morte, a Los Angeles, in California (Stati Uniti) il 5 giugno del 1968. Morirà il giorno dopo, fra le preghiere – lui cattolico – dei suoi famigliari, tra cui gli undici figli avuti dalla moglie Ethel.

Adesso su quell’attentato si riaccendono le luci. L’assassino – almeno quello ufficiale – Sirhan Sirhan, oggi 77 anni, sta per ottenere la libertà sulla parola. Manca solo la firma del governatore della California, dopo che venerdì 27 agosto 2021 la commissione chiamata a decidere ha accettato di accogliere la domanda di libertà condizionale avanzata da Sirhan.

Dalla parte di Sirhan anche alcuni famigliari dei Kennedy, fra cui il figlio che porta lo stesso nome: Robert F. Kennedy Jr. oggi 67enne. Si sono astenuti i magistrati della procura distrettuale di Los Angeles. Contrari i poliziotti di quella città, perché – si sa – ai poliziotti la liberazione di Sirhan dà fastidio.

Una parte dei Kennedy, eredi di Bob Kennedy che fu ministro della Giustizia nel governo guidato dal fratello John ucciso a Dallas nel 1963, vuole vederci chiaro. E chiede una nuova indagine su chi davvero sparò al senatore democratico che, alle primarie in California e Sud Dakota, aveva vinto mettendo un’ipoteca sulla sua candidatura – e probabile vittoria – per la Casa Bianca.

Di certo, il cattolico Bob Kennedy – ucciso pochi mesi dopo Martin Luther King – dava fastidio. Sulla guerra in Vietnam, il senatore democratico aveva cambiato idea: “Siamo come il Dio del Vecchio Testamento? Possiamo decidere a Washington quali città, quali villaggi, quali capanne saranno distrutti in Vietnam? Abbiamo l’autorità di uccidere decine e decine di migliaia di persone?”.

Mentre viene ammazzato, Bob Kennedy lascia il mondo statunitense in una crisi profonda: i movimenti del Sessantotto partono proprio dagli Usa; la protesta contro la guerra in Vietnam (che farà 50 mila giovani americani morti per nulla) sale di giorno in giorno; le tensioni per il razzismo si innalzano.

Bob Kennedy, liberatosi dalla figura ingombrante e dalle contraddizioni del fratello John ucciso a Dallas nel 1963, incarna il meglio degli States: quella parte fedele al vecchio sogno americano di un mondo più giusto. Ucciderlo voleva dire uccidere quel sogno, come puntualmente avvenne.

Bob Kennedy assassinato nel giugno del 1968

Era un giovedì di mezza festa il 6 giugno del 1968, qui in Italia. La scuola stava per finire. Lo ricordo come fosse adesso: il giorno prima, il 5 giugno, avevano sparato in California a Bob Kennedy, quello che tutti pensavamo sarebbe stato un nuovo Kennedy alla Casa Bianca.

Avevo 11 anni. Stavo finendo la prima media e quel pomeriggio – con il pianto e la speranza nel cuore – dedicammo i miei amici e io la partita di pallavolo nell’allora piccolo quartiere, vicino a Borgo Trento (Verona), proprio a Bob Kennedy.

Tifavamo perché potesse sopravvivere agli spari. Era ancora cosciente quando fu colpiti al cranio, con un colpo da dietro, vicino a un orecchio. C’era abbastanza, stando a quanto ci raccontava la televisione Rai in bianco e nero, per sperare. Invece Bob Kennedy morì.

Il sogno americano, vissuto di riflesso nell’Italia del boom economico e del governo Moro di centrosinistra, si era infranto per la seconda volta. Non so gli adulti, ma noi ragazzini – che alla scuola media ci insegnavano il valore del rispetto per i neri e della lotta al razzismo – quell’attentato non lo capimmo.

Non capimmo l’attentato a John Fitzgerald Kennedy, a Dallas nel novembre del 1963. Capimmo ancora meno perché un giovane immigrato palestinese, di religione cristiana, Sirhan Sirhan dovesse sparare a un democratico che credeva nelle libertà civili, non amava la guerra in Vietnam e ci faceva pensare a un mondo migliore.

Anni dopo, con le Brigate Rosse, capiremo che spesso i terroristi sparano – azione di per sé da condannare – molto spesso dalla parte sbagliata. Oggi, nel 2021, la nebbia di allora si dirada. Forse riusciamo a scoprire cosa davvero accadde quel 5 giugno del 1968, all’Hotel Ambassador di Los Angeles.

L’attentato a Bob Kennedy: cosa accadde davvero?

Il 5 giugno 1968, Robert Francis Kennedy aveva appena vinto le primarie presidenziali democratiche della California e del Sud Dakota. Alle 00.15, il senatore Bob Kennedy, 42 anni, e Paul Schrade lasciano la celebrazione. Sono nella dispensa dell’Hotel Ambassador per andare alla conferenza stampa con i giornalisti.

Schrade, nel 1968, è allora un direttore regionale della United Auto Workers che aveva aiutato Kennedy a raccogliere il sostegno dei lavoratori. Schrade, dall’alto dei suoi 96 anni, ricorda ancora oggi la scena nella dispensa.

“Le luci della TV si sono accese. Sono stato colpito. Non sapevo di essere stato colpito”, racconta Paul Schrade al Washington Post. “Stavo tremando violentemente e sono caduto. Poi Bob è caduto. Ho visto dei lampi e ho sentito dei crepitii. Il crepitio in realtà erano tutti gli altri proiettili sparati”.

I testimoni hanno riferito che Bob Kennedy ha detto: “Stanno tutti bene? Paul sta bene?”. Kennedy è ancora cosciente quando sua moglie, Ethel, incinta del loro undicesimo figlio, si precipita al suo fianco. Il senatore democratico sopravvive per un altro giorno. Poi muore all’1.44 del 6 giugno 1968.

Paul Schrade è stato colpito sopra la fronte, ma il proiettile è rimbalzato sul cranio. Altre quattro persone, tra cui il produttore della ABC News William Weisel, sono rimaste ferite. Tutti sopravvissuti.

Sirhan viene subito catturato. Tiene in mano un revolver calibro 22. Karl Uecker, un maître d’Ambassador Hotel che stava scortando Kennedy attraverso la dispensa, ha testimoniato di aver afferrato il polso di Sirhan.

Lo ha bloccato dopo due colpi. Sirhan ha continuato a sparare selvaggiamente mentre veniva tenuto premuto, senza mai avvicinarsi a Kennedy. Anche un cameriere dell’hotel e un aiutante di Kennedy hanno affermato di aver affrontato Sirhan dopo due o tre colpi.

Diversi altri testimoni – osserva il Washington Post in un articolo che ricostruisce il caso – hanno anche affermato che Sirhan non era abbastanza vicino da posizionare la pistola contro la schiena di Kennedy. Eppure proprio sulla giacca del senatore e sui suoi capelli il coroner di Los Angeles, Thomas Noguchi, ha trovato ustioni da polvere da sparo.

Vi sono quindi i segni di colpi sparati a stretto contatto. Questi testimoni hanno fornito ulteriori prove per coloro che insistono sul coinvolgimento di un secondo sicario. Sirhan Sirhan spara stando di fronte a Bob Kennedy; mentre il colpo mortale lo colpisce al cranio, alle spalle, vicino a un orecchio.

Polizia e magistratura californiana non vogliono comunque discutere su questi dati di fatto. Tant’è che l’ufficio del procuratore distrettuale di Los Angeles e il dipartimento di polizia di Los Angeles hanno rifiutato di parlare con il giornalista del Washington Post che ha scritto un articolo in proposito, nel giugno del 1968. Per entrambi, quello di Bob Kennedy, è un caso chiuso.

Il testimone Paul Schrade è convinto che Sirhan Sirhan abbia sparato a lui e agli altri feriti, ma che non abbia ucciso Kennedy. Dal 1974, Schrade ha guidato la battaglia per cercare di persuadere le autorità – la polizia, i pubblici ministeri, i federali, chiunque – a riesaminare il caso e identificare il secondo sicario. Senza risultati.

“Sì, mi ha sparato. Sì, ha sparato ad altre quattro persone e ha mirato a Kennedy“, ha detto Schrade, in un’intervista al Washington Post. “L’importante è che non abbia sparato a Robert Kennedy. Perché non sono andati dietro al secondo sicario? Lo hanno saputo subito. Non volevano sapere chi fosse. Volevano chiudere in fretta”.

Da parte loro, i colpevolisti – attraverso una serie di perizie e con un paio di libri scritti da esperti – sostengono che tutto torna: i numero dei colpi di pistola contro Bob Kennedy e la posizione in cui si trovava rispetto a Sirhan Sirhan. C’è allora da chiedersi perché un amico di Bob Kennedy, come Paul Schrade, ferito pure lui e salvo per miracolo, sostenga una tesi diversa.

Sirhan B. Sirhan agli arresti nel giugno del 1968 per aver sparato al senatore Bob Kennedy

La posizione dei Kennedy su Sirhan

“Sono sopraffatto solo dall’essere in grado di vedere Mr. Sirhan faccia a faccia“, ha dichiarato Douglas Kennedy, che era un bambino quando suo padre fu ucciso nel 1968, durante l’udienza virtuale per la libertà sulla parola. “Penso di aver vissuto la mia vita sia nella paura di lui che del suo nome in un modo o nell’altro”, ha detto Douglas Kennedy. “E sono grato oggi di vederlo come un essere umano degno di compassione e amore“.

Sirhan, che all’udienza indossava un’uniforme blu con un tovagliolo di carta piegato come un fazzoletto in tasca, ha sorriso. “Ho un po’ di amore per te”, ha detto Douglas Kennedy al detenuto, che ha annuito e abbassato la testa, rivela la Cnn. Sirhan B. Sirhan, 24 anni nel 1968 e oggi 77enne, condannato nel 1969 per l’omicidio di Bob Kennedy, eseguito il 5 giugno 1968, per la prima volta non ha alcun procuratore che si oppone alla sua richiesta.

Sirhan B. Sirhan oggi, a 77 anni. Ha molte probabilità di uscire dal carcere in libertà vigilata dopo 53 anni

Il killer fuori dal carcere: il tema del perdono

Fa una certa impressione, a chi come me ha vissuto l’assassinio di Bob Kennedy, scoprire che la realtà non è come ci è stata raccontata. Come miliardi di altre persone nel mondo, grazie alla televisione degli anni sessanta, ho partecipato al dolore globale per la morte di un leader del Sogno Americano. Oggi quella morte si presenta sotto un aspetto inquietante.

Posso capire da un lato lo smarrimento, credo comune a tutti, di alcuni della famiglia Kennedy di fronte a un’altra verità rispetto a quella ufficiale. Credo meriti rispetto e attenzione chi vuole andare a fondo della vicenda, come il figlio di Bob Kennedy, il suo omonimo Robert F. Kennedy Jr.

Ho chiesto, allora, alla criminologa Laura Baccaro come si affronta il rapporto con chi viene indicato e condannato della morte di un proprio caro. Come si gestisce il tema complesso del “perdono”?

“Il tema del perdono mi rimanda a Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, pubblicato nel 2015. Un libro che si occupa di mediazione, d’incontri, di parole e di silenzi. Di mostri e vittime che si incontrano, si guardano”, risponde Laura Baccaro, psicologa giuridica e criminologa, con cui ho scritto il libro Il Biondino della Spider Rossa. Crimine, giustizia e media.

“Spesso le vittime di reati violenti resta prigioniera e vittima della rabbia e del desiderio e bisogno della vendetta, così diventando doppiamente vittima”, osserva la professoressa Baccaro, che insegna anche all’Università degli Studi di Verona. “Il perdono non è inteso in senso religioso, ma umano. Diventa un aspetto fondamentale della convivenza e delle relazioni sociali, diventa un punto per farsi comunità”.

“Non si tratta di essere buonisti o indulgenti”, sottolinea la criminologa Laura Baccaro. “Non si tratta di uno sbilanciamento di potere, così che si può elargire il perdono. Non si tratta di agire il potere di perdonare. E’ invece un incontro alla pari, dove la vittima siede alla pari con l’aguzzino, con l’assassino”.  

Proprio “alla pari” si è seduto il figlio di Bob Kennedy, stando a quanto racconta il Washington Post. Robert F. Kennedy, 67 anni, avvocato ambientalista e attivista per i diritti umani, è andato a trovare Sirhan Sirhan poco prima di Natale del 2017. Con l’assassino – almeno ufficialmente – di suo padre Bob, Robert Kennedy ha parlato tre ore. Il risultato? Una parte della famiglia Kennedy ha chiesto di riaprire le indagini su chi ha sparato a morte contro il senatore democratico.

Perché è vero che Sirhan Sirhan, 24 anni allora, il 5 giugno del 1968 ha sparato otto colpi di pistola contro il senatore democratico Bob Kennedy e le persone che gli erano vicino. Ma risulta altrettanto vero, da testimonianze e perizie, che i colpi sparati sono stati più di quanti (otto colpi) la calibro 22 di Sirhan Sirhan potesse sparare. Per cui vi è il sospetto che un altro sicario possa avere colpito a morte Bob Kennedy e spegnere così, di colpo, il nuovo sogno di un’America migliore.

(le foto sono tratte dal quotidiano Washington Post che si può consultare previo abbonamento. Il Post è uno dei più prestigiosi giornali d’inchiesta del mondo)