Il mese scorso siamo partiti dall’inizio, dalla paura. E se invece partissimo dalla fine? Non temiamo spoiler. Sei tu il primo a dircelo nella lettera a Cangrande. La Commedia si chiama così perché parte male e finisce bene. Quindi la selva oscura era l’inizio, la materia «fetida e paurosa». E la fine?

“A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.”

Se rileggiamo il tuo poema dall’ultimo endecasillabo, quasi fosse uno scavo archeologico, dovremmo rileggerlo tutto alla luce della parola “amore”. Amore che muove, come una danza circolare, una ruota. L’amore che è tondo, come un grembo materno. E sarà forse un caso che nel tuo Paradiso ricorra spesso l’immagine del latte o di un liquido di luce che avvolge caldo e nutriente?

Tu hai amato. Amato in modo intenso. Forse anche rovinoso. Hai amato così tanto i tuoi ideali politici, la tua idea di giustizia, la tua idea di libertà, da essere condannato all’esilio. Hai amato il mondo antico dei poeti pagani: Ovidio, Lucano, Stazio, persino quell’Omero del quale forse non hai mai letto nemmeno una riga. E hai amato Virgilio, al quale hai dato l’onore di essere la tua prima guida e l’onere di accompagnarti per la bellezza di 64 canti.

Hai amato Beatrice. Che non è solo la donna angelicata, eterea, forse evanescente che ci presentano a volte. Ma è corpo, sensi, bellezza, occhio che guarda dritto nella luce di Dio (come osano le aquile), sorriso che potrebbe anche incenerire, come la folgore di Giove.

Hai amato Dio. Dio è il tuo più grande amore. Sicuramente l’ultimo amore. L’ultima visione. Questo noi facciamo fatica a gestire. La nostra è un’epoca di scivolose speranze, non certo un tempo di fedi granitiche. Per te era diverso. Tutto rimandava a Dio. Il mondo, il grande libro della natura, era riflesso della gloria divina. Il tuo accesso al trascendente era diretto, spontaneo, naturale.

Ma come ama Dio? In modo violento. Sì, violento. La parola che esprime tutto ciò è in latino: caritas. Che a tradurla nell’italiana “carità” un po’ ci perdiamo il significato. Ci ricorda la monetina che diamo al ragazzo, quando ci aiuta con il carrello della spesa. La caritas non è un amore mite, misurato, ma è un sentimento sensuale, intenso, infuocato. Un amore che non può essere innocuo, che lascia il segno.

Quando San Giovanni, tra le vertigini celesti, esaminerà Dante sul tema della caritas, questa sarà la domanda:

“Con quanti denti questo amor ti morde.”

Quali sono i denti che ti mordono di questo amore per Dio? E la risposta non potrà che essere:

“Però ricominciai: Tutti quei morsi

che posson far lo cor volgere a Dio,

a la mia caritate son concorsi.”

Capito? Denti, morsi. L’estasi brucia sulla pelle del mistico. Questo è il grande fraintendimento. Noi pensiamo che il mondo dell’Inferno sia quello più sanguigno, più realistico, più vicino a noi. In realtà i dannati sono anime miopi, chiuse nel loop del loro ego. Monoteisti dell’Io. Ci possiamo immedesimare, ma giochiamo al ribasso.

Il Paradiso è fuoco, amore violento, che morde, che brucia. Non è certo per gente tiepida, ma per anime toste. Per falene che ardono gioiose nella luce divina, per anime pesci che nuotano nel grande mare dell’essere. Se partiamo dalla fine ci accorgiamo di tutto questo. Dio penetra il mondo con tutto il suo amore sovrabbondante. E a noi non resta che muoverci assieme al moto delle stelle. E danzare con esse.

Illustrazione di Roberto Filippini © Froh 2020

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