La prima grande bugia che si può raccontare sull’emergenza climatica è che non è colpa dell’essere umano.

La seconda è che tutti gli esseri umani ne sono responsabili in egual misura.

Se oggi non esiste una politica climatica globale efficace, se le temperature continuano ad aumentare, se gli ecosistemi sono al collasso, la ragione va cercata nella macchina organizzata del negazionismo climatico: ingenti finanziamenti, tecniche di propaganda ed efficaci manovre di ingegneria comunicativa che hanno lo scopo di far sembrare il cambiamento climatico solo una teoria, un’opinione, non una realtà scientificamente fondata.

È questo quello che racconta Stella Levantesi, giornalista e fotoreporter, nel libro I bugiardi del clima – Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Editori Laterza, euro 18).

In altre parole, descrive quello che non viene mai detto a proposito dell’emergenza climatica: quando gli scienziati hanno cominciato a dare l’allarme, com’è nato il negazionismo, come le industrie di combustibili fossili non potevano permettere che i loro affari fossero compromessi organizzando informazioni false o errate con l’obiettivo di condizionare l’opinione pubblica.

Stella Levantesi

«Erano gli anni Settanta e, da allora, le lobby negazioniste – non solo le industrie fossili, ma politici, gruppi di esperti, piattaforme mediatiche, gruppi di facciata e falsi esperti – hanno messo in atto la più grande operazione di insabbiamento della storia più recente», afferma Stella Levantesi. «Il negazionismo non si limita a rimuovere la realtà. Ne costruisce una alternativa», continua, «al cui centro c’è un elemento su tutti: l’inganno. La disinformazione diventa la nuova realtà. E il negazionismo diventa vitale per la sopravvivenza di quella stessa realtà. Il negazionismo è strategico, è attivo, è pubblico».

Levantesi, qual è la storia più eclatante di negazionismo che ha generato enormi danni?

«Ce ne sono diverse. Nel 1998, l’American Petroleum Institute (API), gruppo che comprendeva anche rappresentanti della Chevron, della Exxon, del George C. Marshall Institute e della TASSC (The Advancement of Sound Science Coalition), tutti impegnati nella campagna di negazionismo sui cambiamenti climatici, diffusero un “piano di azione” con l’obiettivo di “informare i media sulle incertezze della scienza climatica” e di “educare e informare il pubblico, stimolandolo a sollevare questioni con i politici”. Secondo il documento, la “vittoria” (dei negazionisti) sarebbe stata raggiunta solo nel momento in cui “coloro che promuovono il Trattato di Kyoto sulla base della scienza esistente sembrano aver perso di vista la realtà”. All’epoca la strategia negazionista, come quella della Exxon, era di far passare il cambiamento climatico come un’opinione, una teoria e non un fenomeno scientifico empiricamente osservabile: capovolgevano i fatti, per cui chi aveva compreso che il riscaldamento globale era reale e causato dall’uomo diventava, invece, qualcuno che aveva perso di vista la realtà».

Un’altra…

«È quella del mito della responsabilità individuale incarnata ne “l’Indiano che piange”. Il Crying Indian Ad era uno spot pubblicitario degli anni Settanta il cui slogan recitava “Le persone inquinano, le persone possono fermare l’inquinamento”. Lo spot era parte di una campagna pubblicitaria messa su da Keep America Beautiful, un’organizzazione fondata da aziende leader nel settore di bevande e packaging. L’Indiano che piange è stata un’arma fondamentale per la cristallizzazione di una narrazione portante alla base del negazionismo climatico: la campagna pubblicitaria cambiò l’America e introdusse l’idea della responsabilità individuale. L’obiettivo era distogliere l’attenzione dall’attività delle industrie e dalla produzione, in modo tale che potessero continuare ad agire indisturbate. Il messaggio all’opinione pubblica americana, e poi mondiale, era che la soluzione del cambiamento climatico dipende dagli individui e non dal sistema. Le compagnie di produzione, gli Stati e il governo federale erano improvvisamente esonerati».

E in Italia come siamo messi?

«In Italia il negazionismo climatico è meno istituzionalizzato rispetto agli Stati Uniti, ma è comunque presente anche nel nostro Paese attraverso forme meno riconoscibili e quindi, forse, più insidiose. Ci sono, anche qui, come negli Stati Uniti, scienziati negazionisti e “falsi esperti” che spesso sono anche consulenti per il settore fossile. Non sorprende quindi che alcuni di questi individui promuovano la narrazione e il messaggio negazionista come, per esempio, è accaduto a settembre del 2019, alla vigilia del Summit sul Clima di New York, con una lettera di un gruppo chiamato Clintel diretta all’Onu e all’Unione Europea che sosteneva che “non c’è nessuna emergenza climatica” e che la CO2 è “cibo per piante”. Tra le cinquecento firme della lettera più di cento sono italiane e molti dei firmatari non erano scienziati del clima. I contenuti della lettera sono stati giudicati non corretti a livello scientifico e i miti negazionisti sono stati più volte sfatati dalla scienza del clima.

Da un punto di vista comunicativo, invece, alcune testate, anche quelle cosiddette “progressiste”, promuovono il messaggio negazionista quando cadono nella trappola del cosiddetto “resoconto equilibrato” riportando affermazioni o messaggi della lobby negazionista come se fossero espressioni da un punto di vista diverso sul tema. Nel libro scrivo che sarebbe un po’ come se tutte le volte che si parlasse della Terra, si dovesse includere anche la prospettiva terrapiattista. Il cambiamento climatico non è un’opinione, è un fenomeno scientifico, e offrire prospettive “alternative” non è libertà di stampa, ma giornalismo irresponsabile e disinformato.

Nel libro parli anche del dramma dell’ecocidio, tra informazione e disinformazione. Con questo termine cosa intendi?

«L’ecocidio è la decimazione degli ecosistemi e della vita. Il termine copre i danni diretti causati alla terra, al mare, alla flora e alla fauna all’interno degli ecosistemi colpiti nonché l’impatto che ne deriva sul clima. L’ecocidio ha impatti negativi su più livelli, il danno, infatti, non è solo ambientale, ma può essere anche culturale, psicologico ed emotivo ed interessare le comunità stesse, specialmente quando lo stile di vita di una comunità è profondamente connesso all’ecosistema colpito. Quello che sta avvenendo in Amazzonia, purtroppo, è emblematico dell’ecocidio. La foresta amazzonica viene abbattuta al ritmo di un campo da calcio al secondo. Negli ultimi anni, con il presidente Bolsonaro, la deforestazione in Amazzonia brasiliana ha raggiunto i livelli più elevati dell’ultimo decennio. Le politiche di protezione ambientale del governo brasiliano sono, di fatto, inesistenti e il presidente ha spesso diffuso il mito negazionista per cui frenare la deforestazione in Amazzonia avrebbe “danneggiato lo sviluppo economico” del Paese. Inoltre, dopo le ultime dichiarazioni pubbliche di Bolsonaro al summit dei leader nella Giornata della Terra dell’aprile scorso, il rischio è che la sua politica passi da aperto negazionismo a greenwashing, cioè dare una parvenza di un impegno per un’azione “green”, appunto, senza che questa abbia un riscontro reale e concreto. In altre parole, significa promuovere politiche green per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle proprie responsabilità in termini di inquinamento».

Qui si innescano anche le tante uccisioni dei difensori della Terra e dei diritti dei popoli indigeni…

Certo, e di questo ne parlo nell’ultimo capitolo del libro. Secondo un rapporto di analisi del 2019 dell’organizzazione internazionale Front Line Defenders (FLD), più di 300 attivisti per i diritti umani sono stati assassinati nel 2019 e, di questi, il 40% lavorava e combatteva per questioni relative ai diritti della terra, ai diritti delle popolazioni indigene e alle questioni ambientali. Purtroppo, è un tema ancora estremamente attuale. Solo pochi giorni fa è stata uccisa Joannah Stutchbury, difensora della foresta Kiambu in Kenya. Aveva protestato contro la distruzione della foresta per edificazione e costruzione e aveva già ricevuto minacce in passato. Le hanno sparato davanti alla sua abitazione a Nairobi».

Il passo dopo è l’ecorazzismo…

«Sì, sono tutti temi legati tra loro. Il termine ecorazzismo, coniato negli anni Ottanta, indica il meccanismo per cui le comunità socialmente marginalizzate hanno accessibilità limitata, se non addirittura assente, ad acqua, aria e terra non contaminata. Negli Stati Uniti, per esempio, c’è un razzismo sistemico per cui i rifiuti vengono smaltiti e scaricati nelle comunità più marginalizzate che, spesso, coincidono con le comunità afroamericane, latine o indigene. Lo stesso vale per impianti chimici, raffinerie e industrie tossiche. Mustafa Santiago Ali, cofondatore della sezione di giustizia ambientale dell’Environmental Protection Agency, che si è dimesso sotto l’amministrazione Trump, ha dichiarato che l’ingiustizia ambientale riguarda la creazione di “zone sacrificabili” dove viene collocato dallo Stato tutto ciò che nessun altro vuole. La giustificazione di questo processo è in primis economica, ovvero che ha senso costruire impianti inquinanti o scaricare rifiuti su terreni cosiddetti “a basso costo” dove vivono le comunità nere e quelle più povere ma che in realtà sono tali solo perché spogliate di ricchezza e opportunità. Gli esempi più eclatanti di questa dinamica sono l’inquinamento petrolchimico nella cosiddetta Cancer Alley, la strada del cancro della Louisiana che viene chiamata così perché la percentuale dei tumori è più alta della media a causa della presenza delle industrie tossiche, e l’avvelenamento da piombo a Flint, nel Michigan, dove la percentuale di popolazione nera è di più del 50 per cento».

Come possiamo difenderci dai negazionisti e dalla disinformazione in generale in tema di emergenza climatica?

«Per combattere il negazionismo climatico è fondamentale imparare a riconoscere i meccanismi e i processi del negazionismo, il libro nasce anche da un’esigenza di questo tipo. I fatti non bastano. Sono essenziali, ma non bastano. Per questo, è necessario comprendere i processi e imparare a riconoscere le strategie. Questo è un modo per combattere la disinformazione su tutto lo spettro scientifico».

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