L’esplosione al porto di Beirut un anno dopo
Le manifestazioni per chiedere verità e giustizia continua al porto di Beirut, anche oggi, ad un anno dallo scoppio che ha provocato morti, feriti e sfollati. Compromettendo il futuro del Libano.
Le manifestazioni per chiedere verità e giustizia continua al porto di Beirut, anche oggi, ad un anno dallo scoppio che ha provocato morti, feriti e sfollati. Compromettendo il futuro del Libano.
“Un anno di silenzio è assordante”. Così si legge in uno dei tanti cartelli comparsi oggi durante la manifestazione ad un anno dalla grande esplosione al porto di Beirut. Erano le 18.08 del 4 agosto 2020, e per Beirut e l’intero Libano il destino già compromesso dalla pandemia si fece disastroso.
Una esplosione devastante ha spazzato via il porto e interi quartieri della capitale libanese, uccidendo 207 persone, ferendone 6mila e rendendone sfollate 300mila.
Oggi, a distanza di un anno, tanti cittadini e cittadine si sono ritrovate a manifestare nuovamente, per chiedere al governo verità sull’incidente che sta portando il paese sull’orlo del baratro economico, oltre a chiedere giustizia per tutte le vittime che stanno combattendo per conoscere il nome dei responsabili.
Le certezze sono poche dopo un anno dalla deflagrazione al porto cittadino.
Lo scoppio è stato innescata da 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, per anni rimaste apparentemente incustodite in un magazzino. Michelle Bachelet, l’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha chiesto che il governo libanese garantisca un’indagine “trasparente, efficace, approfondita e imparziale”. Ma sembra un miraggio.
Finora le attività per conoscere lo stato dei fatti sono quelle svolte dalle autorità libanesi, da febbraio guidate dal giudice Tareq Bitar, subentrato al procuratore Fadi Sawan, rimosso dal suo incarico su forti pressioni politiche dopo che aveva incriminato tre ex ministri.
Attualmente è stato aperto un fascicolo contro nove personalità ai vertici delle istituzioni e dei servizi di sicurezza del Paese, indicate come presunti corresponsabili del disastro, accusati di negligenza e incuria.
Il sistema bancario libanese è fallito dal 2019. Per Ibrahim Kachab, veronese originario di Tiro, la situazione dal 2020 ormai è oltre il limite: «Sono in contatto ogni giorno con famigliari e amici rimasti in Libano – ci spiega – e la vita continua a peggiorare, si sopravvive alla giornata. Non si superano ormai le due ore scarse di elettricità quotidiane. Se un anno fa uno stipendio poteva valere mille euro oggi lo stesso non supera i 100 euro».
Il gasolio scarseggia per tutti, le file ai distributori ormai sono all’ordine del giorno: «Qui come in molte altre zone del mondo sono frequenti gli incendi – continua Kachab –, ma i vigili del fuoco non escono nemmeno più dalla propria postazione non avendo benzina a sufficienza per arrivare nel luogo da soccorrere».
Le Nazioni Unite stimano a oltre 350 milioni di dollari gli aiuti d’emergenza per la popolazione che si tenteranno di raccogliere nella Conferenza Internazionale organizzata dalla Francia e dall’Onu il prossimo venerdì 6 agosto. Una persona su sei nel paese beneficia del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (WFP), mentre per Medici senza Frontiere metà della popolazione vive in povertà estrema con meno di un dollaro al giorno. I prezzi di cibo e medicinali sono quadruplicati.
«Beirut non è più la stessa, il Libano non è più lo stesso. – afferma ancora Ibrahim Kachab – Il nuovo primo ministro incaricato, Najib Miqati, si lamenta di non poter andare in giro perché la gente lo insulta, come insulta il resto dei politici che hanno ridotto il paese in una situazione che va oltre il drammatico. Un lamentarsi vergognoso visto che, secondo l’Unicef, un terzo dei bambini in Libano va a letto a stomaco vuoto. Ma come dice un proverbio libanese: “quelli che si vergognavano sono morti”.»
Le foto dell’articolo sono state concesse da Cynthia Choucair.
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