Ripartono, a due anni dall’ultima campagna del settembre 2019 e dal breve ma fruttuoso intervento del 2020, gli scavi al sito archeologico delle Colombare di Negrar. Un impegno di ben sei settimane (dal 23 agosto al 1 ottobre), significativamente più lungo dei precedenti e dettato dalla necessità di un’indagine più ampia e approfondita rispetto ai dati acquisiti sul sito nel corso del tempo.

Il sito, tra i più importanti del nord Italia, è già stato indagato all’inizio degli anni Cinquanta dall’allora direttore del Museo civico di Storia naturale di Verona Francesco Zorzi e successivamente, nel 1967, dalla Soprintendenza alle antichità per le Venezie con una breve campagna affidata al prof. Leone Fasani.

Infine, alcuni sondaggi sono stati condotti nel 2015 dalla soprintendenza di Verona sotto la direzione di Gianni De Zuccato. A condurre oggi i lavori sarà, come negli scavi del 2019, Umberto Tecchiati, professore associato del Dipartimento di Beni Culturali e ambientali dell’Università di Milano.

Una nuova ricerca sull’ambiente e l’economia antiche

L’obiettivo di Francesco Zorzi, paleontologo e direttore, dal 1945, del Museo civico di Storia naturale di Verona, era coerente con la cultura archeologica del suo tempo e consisteva nel portare alla luce i reperti e collocarli in una successione stratigrafica nella logica della valorizzazione della cultura materiale, intesa come espressione con la quale si indicano tutti gli aspetti visibili e concreti di una cultura, quali i manufatti, gli utensili della vita quotidiana e delle attività produttive.

Il nuovo scavo, invece, punta prevalentemente a raccogliere informazioni di tipo paleoambientale e paleoeconomico, facendo così fruttare le informazioni e gli indizi ricavati dagli scavi precedenti in un contesto più ampio. La ricostruzione del paleoambiente (ovvero dell’ambiente antico) cercherà di collocare l’aspetto dell’insediamento umano (con la ricostruzione di come si siano formati i depositi) nel contesto complessivo del territorio, passando anche per la comprensione di quali fossero le risorse naturali a disposizione (animali allevati o cacciati, piante coltivate e raccolte, ecc.).

L’obiettivo, quindi, è di collocare questa cultura materiale in uno scenario naturale modificato dall’uomo tra il 4300 a. C e il 2000 a. C. e di verificare al contempo alcune ipotesi di Zorzi, ovvero che si trattasse o meno di un insediamento di capanne, se avesse un carattere stagionale o fosse permanentemente insediato e sondare alcune possibilità, come l’eventuale presenza di aree funerarie nei ripari sottoroccia e nelle grotticelle presenti nella zona.

(È possibile seguire gli aggiornamenti della campagna tramite il profilo Instagram dello scavo, in cui periodicamente si tengono delle dirette, e approfondire la conoscenza delle ricerche anche grazie al sito web, ndr)

Il sito delle Colombare

La statua raffigurante Francesco Zorzi

Il sito archeologico, individuato nel 1951 da Giovanni Solinas, si trova nei monti Lessini veronesi, sul versante orientale della media Valpolicella, in posizione prospiciente alla Valpantena. Si trattava di un abitato collinare all’aperto, posto a circa 650 m s.l.m, forse a occupazione stagionale e probabilmente funzionale allo sfruttamento dei pascoli d’altura. La scelta della posizione è strategica per le comunicazioni all’interno dei Lessini e anche rispetto alla pianura veneta nel corso della seconda metà del V millennio a.C., periodo al quale si fa risalire il primo impianto del sito. Del complesso, per i dati attualmente raccolti, sono state riscoperte le strutture di nove capanne che sfruttavano su un lato gli spuntoni rocciosi e ai massi erratici presenti nella zona.

Per quanto riguarda i manufatti, gli scavi di Zorzi hanno restituito vasi in ceramica, abbondante industria litica in selce e in materia dura animale come punteruoli, punte, aghi/spilloni, oggetti a biseau (ovvero scalpelli), pendagli e manici. Si sono aggiunti con lo scavo del 2019 schegge e manufatti di selce e pietra diversa dalla selce, ceramica e resti faunistici, principalmente databili al Neolitico tardo (intorno al 4000 a.C.).

L’università di Milano alla ricerca di un’area funeraria

Per un quadro più dettagliato sugli scavi, abbiamo sentito il professor Umberto Tecchiati.

Professore, come ha inciso il Covid sull’attività di preparare scavo?

«Proveniamo da una situazione sanitaria che ha procurato forme di distanziamento non solo tra noi ma anche da coloro che possono aiutarci a fare le ricerche. Quest’anno, però, con l’evoluzione in positivo della situazione pandemica, la fase organizzativa dello scavo si sta mostrando molto più semplice, dato che tutti i partecipanti hanno, o avranno a breve, due dosi di vaccino. Quindi, i rischi sono molto ridotti sia perché lavoreremo all’aperto sia perché agiremo naturalmente nel rispetto dei protocolli.»

Chi la accompagnerà nello scavo?

«Sono studenti e laureandi del corso di laurea magistrale in archeologia, studenti e specializzandi della scuola di specializzazione in beni archeologici dell’università di Milano oltre ad alcuni miei laureandi del corso di laurea triennale in Scienze dei beni culturali. Il laboratorio di scavo avanzato fa parte della didattica e del normale percorso esperienziale di professionalizzazione e specializzazione dell’archeologo svolto sul campo.»

Quali gli obiettivi della campagna?

Il professor Umberto Tecchiati dell’università di Milano, che condurrà lo scavo al sito delle Colombare di Negrar il prossimo 23 agosto.

«In particolare, all’interno di un’area di ben tre ettari, saranno indagati tre settori non sondati da Francesco Zorzi, che sembrano particolarmente promettenti: il settore a nord della capanna 1 Zorzi (sondaggio 4 già aperto nel 2019 perché proprio lì si presume la presenza di un’inedita struttura abitativa) e la zona del pianoro alla base del bosco. Un’indagine che si avvale oggi di metodologie molto più avanzate rispetto a quelle degli anni Cinquanta. Perché, se è vero che ciò che ci aspettiamo come materiali e reperti non sarà troppo diverso da quelli già raccolti nelle campagne precedenti, ci attendiamo però, visto il taglio scientifico della ricerca, informazioni molto più precise anche dal punto di vista cronologico rispetto alla vita dell’abitato. Ci avvaliamo, per esempio, delle datazioni al carbonio 14 (siamo in attesa dei risultati di dieci campioni inviati al laboratorio di Mannheim, in Germania), delle analisi polliniche o delle analisi dei resti vegetali carbonizzati (indagini in corso nel Laboratorio di Palinologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia). Sarà così possibile sapere se l’abitato sia stato utilizzato stagionalmente oppure, come credo, in modo permanente. Un dato decisivo in questo senso potrebbe essere la scoperta, in un settore caratterizzato da un riparo sottoroccia o da una grotticella (zona certamente non indagata dallo Zorzi) di un’area funeraria.»

In una recente intervista ha dichiarato: “Lo scavo diventa visibile solo quando viene pubblicato; affluiscono qui però solo i dati scientifici.” Cosa intende?

«Di uno scavo o di un’attività di indagine archeologica si conoscono, perché pubblicate, solo le evidenze scientifiche. Vengono così trascurate le difficoltà organizzative, il contesto umano e relazionale, il rapporto con gli enti pubblici, Comuni e soprintendenza, per esempio. Elementi tutti che influiscono eccome sulla gestione dell’attività archeologica ed è per questo giusto soffermarsi per sottolineare sia le difficoltà quanto l’impegno per trovare soluzioni funzionali e condivise. Perché lo scavo ha senso non quando è autoreferenziale rispetto al mondo della cultura e della ricerca, ma quando piuttosto riesce a diventare visibile e significativo anche per la gente comune che, non dimentichiamocelo, è chi con le tasse rende possibile la ricerca stessa. Ecco, quindi, il senso del progetto comunicazione (chiamato anche “archeologia pubblica”) che ha la finalità di avvicinare il pubblico a un ambito di ricerca apparentemente chiuso e di costruire una sensibilità per questi beni culturali che sono patrimonio di tutti e che è bene che tutti conoscano.»

Tutto il vostro lavoro di estrazione e ricerca avrà bisogno di una valorizzazione. Cosa non semplice per un sito di archeologia preistorica…

«È evidente che la godibilità da parte del pubblico di un sito preistorico non può contare sulla significatività monumentale dell’archeologia classica. Questo è un limite per la fruibilità del turista medio e magari straniero che la Valpolicella punta ad attrarre. Tolti i manufatti e i reperti, che avranno come prima destinazione la soprintendenza e poi i musei che ne faranno richiesta, rimane infatti la questione della fruizione dell’area: un sito di ben tre ettari che non può contare sull’impatto visivo, per dirne uno, dei mosaici della villa romana di Negrar, anche perché una volta terminato lo scavo delle Colombare verrà ripristinato il livello naturale del terreno. Ma quello che la villa non può dare – e il sito delle Colombare invece sì – è la restituzione puntuale del contesto orografico e ambientale, poiché la zona si è mantenuta sostanzialmente invariata. Se la villa esiste archeologicamente “di per sé” come sopravvivenza, isolata e privata del suo contesto perché modificato da strade, case, colture, il sito delle Colombare invece non avrà mai magari lo stesso impatto emozionale di un sito monumentale “classico”, però si caratterizza molto meglio in un progetto di conoscenza, anche naturalistica, del territorio e della relazione tra ambiente e uomo grazie al suo stato di conservazione.

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