Hong Kong: scacco matto alla libertà di stampa
L'ennesimo intervento "liberticida" ai danni della stampa di Hong Kong pone ancora una volta la questione su come l'Occidente si deve porre nei confronti del "dittatore" cinese.
L'ennesimo intervento "liberticida" ai danni della stampa di Hong Kong pone ancora una volta la questione su come l'Occidente si deve porre nei confronti del "dittatore" cinese.
La tiratura completa – un milione di copie, rispetto alle solite 80.000 – dell’ultimo numero di Apple Daily, il quotidiano di opposizione più popolare di Hong Kong, è andata quasi completamente esaurita fin dalle prime ore della giornata. E non poteva essere diversamente. Nell’ex colonia britannica, purtroppo, il giornale era finito da tempo nel mirino delle autorità e i suoi giornalisti erano indagati ai sensi della temuta legge sulla “sicurezza nazionale”. Poi è arrivato il triste epilogo e la società proprietaria, Next Digital, aveva annunciato esattamente una settimana fa, mercoledì 22 giugno, di essere stata costretta a chiudere durante la notte. Nei giorni successivi, poi, un editorialista dello stesso giornale è stato arrestato: Fung Wai-kong stava, infatti, cercando di lasciare la città e partire verso il Regno Unito. Non ce l’ha fatta. L’hanno arrestato direttamente all’aeroporto. La polizia di Hong Kong ha affermato che il giornalista 57enne è accusato di «aver cospirato insieme a paesi stranieri o forze straniere con l’obiettivo di mettere in pericolo la sicurezza nazionale».
Fondato 26 anni fa dal milionario Jimmy Lai – un ex lavoratore migrante cantonese che ha creato dal nulla il suo impero tessile – questo tabloid ha raggiunto il successo grazie alla combinazione di titoli eclatanti, gossip sulle celebrità e giornalismo investigativo. Di fronte alla progressiva “caduta” di tutti gli altri media dell’opposizione, affogati dal boicottaggio degli inserzionisti pro-Cina, l’Apple Daily è diventato nel tempo la voce più critica e più forte (se non l’unica) contro il governo autonomo pro-Pechino. A maggior ragione da quando le proteste studentesche scoppiate del 2019 hanno finito per porre su un terreno di vero e proprio scontro i media con le autorità. Lai, 73 anni, ha persino partecipato di persona ad alcune delle più grandi marce che si sono svolte in quel periodo e il suo giornale ha sempre dedicato un’ampia copertura al movimento di protesta.
L’entrata in vigore della Legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino, il 30 giugno dello scorso anno, ha segnato, purtroppo, una svolta per le sorti dell’Apple Daily. Tale misura punisce con l’ergastolo i reati vagamente definiti di “terrorismo”, “movimento indipendentista”, “sovversione contro i poteri dello Stato” e “cospirazione con forze straniere”. Ad agosto del 2020, un mese e mezzo dopo l’entrata in vigore del provvedimento, Lai è stato arrestato ai sensi di quella legge. Nei prossimi mesi gli sarebbero state presentate altre accuse relative alla sua partecipazione alle manifestazioni del 2019 che non erano state approvate dalla Polizia, come previsto dalla legge di Hong Kong. Attualmente sta scontando quattordici mesi di carcere ma non è certo che alla loro scadenza potrà riottenere la libertà. Anche perché la scorsa settimana il giornale ha ricevuto la ferita che lo ha condannato a morte. Un raid che ha coinvolto 500 agenti di polizia ha arrestato il suo direttore, Ryan Law, il suo CEO, Cheung Kim-hung, e altri tre dirigenti. A Law e Cheung è stata negata la libertà su cauzione, accusati addirittura di collaborare con forze straniere. Sequestrati circa 40 computer della redazione. E, soprattutto sono stati “congelati” i conti bancari della società, rendendo impossibile anche il pagamento degli stipendi di impiegati e giornalisti.
Fin dalla sua entrata in vigore, la National Security Law ha rappresentato un duro colpo contro le libertà che, per il trasferimento di sovranità dell’enclave siglato con il Regno Unito, la Cina avrebbe dovuto garantire all’ex colonia britannica almeno fino al 2047. Dalla sua entrata in vigore, non a caso, le manifestazioni di protesta sono andate progressivamente scemando. D’altronde la maggior parte degli attivisti politici dell’opposizione oggi sono in carcere. Eventi emblematici come la “veglia annuale” del 4 giugno in memoria delle vittime del massacro di Tiananmen sembrano destinati a non svolgersi più. Nel frattempo gli accademici e gli esperti sono riluttanti a rilasciare interviste o dichiarazioni ai media e alcuni degli editorialisti dei principali giornali hanno annunciato la fine delle loro collaborazioni, considerando che il “gioco non valesse la candela”. Tra i giornalisti è sorto lo spettro del più insidioso dei veti professionali, l’autocensura. E così oggi, nell’indice della libertà di stampa stilato da Reporters sans frontières, l’enclave si classifica 80esima su 180 Paesi analizzati; soltanto vent’anni fa quando questa classifica è stata lanciata, era al 18esimo posto.
La chiusura di Apple Daily dimostra come le autorità di Pechino stiano usando – come ampiamente prevedibile – il National Security Act quale strumento per eliminare ed estirpare le libertà civili e la cultura in questa città. Ed è chiaro che questa chiusura vuole anche essere anche e soprattutto un avvertimento per tutti gli altri media che ancora aspirano ad essere una voce indipendente contro il regime. “Che nessuno si azzardi a opporsi, perché quella è la fine che farà”, sembrano dire gli eventi a cui stiamo assistendo in questo periodo. Con buona pace per la libertà di espressione. E forse è davvero arrivato il momento, come sostenevamo già tempo fa da queste colonne, che l’Occidente smetta di guardarsi l’ombelico e agisca per calmare la “sete di censura” dell’alleato economico cinese.
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