Disco Ruin – Il Mondo perduto
Un docufilm - che verrà proiettato in anteprima il 29 giugno al Fiume Arena Estiva - racconta il mondo ormai decadente delle discoteche, fra musica, lustrini e paillettes.
Un docufilm - che verrà proiettato in anteprima il 29 giugno al Fiume Arena Estiva - racconta il mondo ormai decadente delle discoteche, fra musica, lustrini e paillettes.
Il mondo tutto lustrini e paillettes delle discoteche degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta ormai non c’è più. Non c’è più perché da allora è cambiato qualcosa nel modo di pensare il divertimento e perché, anche se ancora oggi alcune discoteche resistono – e resistono ai cambiamenti culturali, più che alla pandemia, che pure ha dato una bella spallata – è pur sempre vero che le mode l’hanno sempre fatta da padrone in campo culturale e del divertimento e questo non è un tempo per le discoteche. Un tempo che forse tornerà, così come a volte ritornano tante altre cose, pur con le modificazioni e ammodernamenti necessari, ma ora come ora si può parlare tranquillamente di decadenza delle discoteche. Tanto che su questo tema recentemente è stato realizzato anche un’opera cinematografica.
Incontriamo allora Nicola Fedrigoni, executive producer della K+ Film, casa cinematografica di Verona, che il 29 giugno presso l’Arena Estiva Cinema Fiume lancerà in anteprima, su maxischermo, Disco Ruin. Il docufilm, che racconta l’ascesa e il declino di un mondo oramai quasi dimenticato, uscirà in tutta Italia il 5 luglio in oltre ottanta sale e sarà distribuito su Sky Arte in autunno, in collaborazione con M2O Radio.
Fedrigoni, partiamo dall’inizio: da dove nasce l’idea di Disco Ruin e perché K+ ha deciso di investire in questo progetto?
«Disco Ruin nasce dalla Sonne Film di Giangiacomo De Stefano per la regia di Lisa Bosi e Francesca Zerbetto. Il progetto ci è stato presentato durante la Pandemia in una fase di stallo nella postproduzione video e audio e ci è stato chiesto di contribuire a trasformare il prodotto in qualcosa di più efficace. Siamo così entrati in quota di partecipazione e abbiamo garantito la nostra supervisione e gestione delle risorse per riuscire a portarlo nei cinema.»
Chi sono i destinatari di questo documentario e in quale misura pensi che possano coglierne a fondo il messaggio?
«Il documentario parla di un mondo che va dagli anni ’60 agli anni 2000 e quindi coinvolge quattro/cinque generazioni di persone che hanno amato l’universo della discoteca, del club, del dj e di una musica che in quegli anni aveva un vigore molto particolare, che ha influenzato l’arte, la moda, il design e, non da ultimo, l’architettura. Si parla, infatti, di cattedrali dell’entertaiment, delle discoteche intese cioè come luoghi di ritrovo, di ballo e di cultura, di sessualità e di apertura mentale. Luoghi che, oramai, non esistono più, collassati in una rovina che è passata attraverso l’AIDS, la droga, le stragi del sabato sera. Anche per le generazioni future il documentario è una memoria storica fondamentale che dipinge una realtà di cui rimangono solo poche tracce. Il racconto appassionerà sicuramente un ampio ventaglio di pubblico: dal ventenne amante del ballo, al settantenne che ricorda le belle serate che faceva un tempo.»
Possiamo affermare forse che alla base di questo lavoro è dato cogliere una sottile vena di malinconia e un delicato sentimento di nostalgia?
«Sì, sono sicuramente due elementi presenti, ma come tutte le cose che hanno segnato la storia hanno avuto un loro inizio, una loro evoluzione e una loro fine, e forse è giusto così. Adesso viviamo in un mondo nuovo, un mondo che si è aperto con il nuovo millennio e che forse deve ancora trovare un’identità ben definita, ma che va via via crescendo e delineandosi sempre di più. Penso ai giovani di oggi che hanno molta più libertà di un tempo per esprimersi, anche e soprattutto attraverso i social. Un ruolo, quello dei social, che prima degli anni duemila, apparteneva appunto alle discoteche.»
In quale misura le esperienze descritte hanno a che fare con la tua generazione e quelle immediatamente successive? In che modo è avvenuto il cambiamento di mentalità rappresentato in questo lavoro?
«La tematica tocca da vicino la mia sensibilità. Io sono degli anni ’70 e ho vissuto appieno la realtà della discoteca, sia nella forma pomeridiana della domenica, sia in quella del sabato sera o delle serate infrasettimanali. Ho vissuto l’epoca degli afterhours, dei rave parties e un po’ tutto quel mondo dove la danza, la musica, la strumentazione, l’arte, la voglia di apparire, le liste all’ingresso erano una cosa quotidiana, erano motivo di ritrovo e il modo di socializzare. Le trasformazioni che hanno portato al cambiamento rappresentano, a mio avviso, anche una naturale evoluzione e hanno segnato il graduale passaggio da una società di roccia ad una liquida, per usare le espressioni di Zygmunt Bauman. Noi abbiamo rappresentato quella generazione di mezzo, fra coloro che hanno fatto la guerra e hanno costruito le solide fondamenta del nostro mondo e i giovani di oggi, più fluidi, dinamici, che hanno accesso all’informazione e alle canzoni in modo molto più semplice.
Abbiamo sperimentato i cambiamenti nella musica attraverso il vinile, la cassetta, il walkman, il cd e nel cinema attraverso le VHS e il supporto digitale. Oggi con il solo cellulare i ragazzi fanno tutto. Io credo che fosse il momento giusto per raccontare la fine dell’epoca della discoteca e fosse giusto farlo a 360°: il film va a ripercorre, infatti, quelle che erano le performance artistiche di Carmelo Bene, e anche quegli aspetti di esagerazione legata ai party infiniti, quando si ballava anche per diciotto ore consecutive, per tutto il week-end. Ora l’atmosfera è totalmente diversa, meno estrema, ma al tempo stesso meno entusiasmante e la qualità artistica di coloro che si esibiscono si è notevolmente abbassata. Una volta, poi, era necessario recarsi in discoteca per conoscere le nuove avanguardie musicali e per capire quali erano le tendenze che avrebbero segnato la tua vita in quegli anni. Oggi basta utilizzare uno qualsiasi dei servizi di streaming musicale per disporre e usufruire in autonomia di tutti brani che si desiderano ascoltare.»
Per concludere, dopo due film di successo e la presentazione di questo docufilm, cosa bolle in pentola alla K+? Qualcosa di nuovo nel solco della vostra tradizione o sono in cantiere trasformazioni profonde?
«Il mondo è stato radicalmente cambiato da questa pandemia che ci ha inaspettatamente travolto. Tuttavia, devo anche riconoscere che alla K+ siamo stati fortunati perché ci ha colto in un momento positivo, quando eravamo pronti per l’uscita del nostro secondo film (Si muore solo da vivi, 2020) e stavamo preparando le basi per lo sviluppo delle successive produzioni. Abbiamo sfruttato il periodo del lockdown, concentrando le nostre energie nel ricercare progetti in sintonia con la nostra linea editoriale dettata da Valentina Zanella. Abbiamo acquisito diritti e sceneggiature di libri a cui abbiamo apportato il nostro contributo. Ne cito una in particolare, Acqua e anice, con protagonista Stefania Sandrelli. Abbiamo vinto il bando dell’Emilia-Romagna Film Commission, quello del Veneto Writing Lab legato al TorinoFilmLab e siamo fra i cinque finalisti selezionati per fare un approfondimento sulla sceneggiatura. Devo dire che le soddisfazioni stanno arrivando numerose e stiamo lavorando a tre/quattro nuove produzioni. Continuano le nostre collaborazioni con Sky Arte e il nostro lavoro come casa di produzione service per le pellicole internazionali: a inizio anno abbiamo cominciato con House of Gucci, siamo su una serie di HBO e in parallelo stiamo portando avanti un film che verrà girato proprio qui a Verona, le cui riprese cominceranno a settembre, ma su cui, per ora, non posso sbottonarmi di più. È certamente, dunque, un anno che rappresenta una rivoluzione, un cambiamento che avrà effetti positivi e negativi, ma che ancora non si sa se sarà efficace. Una rivoluzione che parte anche dalla scelta di Disney di portare i propri film in contemporanea sia in sala che in piattaforma. Solo il futuro ci dirà a cosa porteranno le scelte e le strategie adottate in questi mesi.»
Foto di copertina: La discoteca “Ultimo Impero” di Airasca, vicino a Torino. I giganti del divertimento sono oramai solo luoghi in rovina su cui, però, continua ad aleggiare lo spirito di un glorioso passato.
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