Quando si va al cinema a vedere una produzione in cui partecipa la RAI, il rischio di trovarsi di fronte a una pellicola che viaggia tra la fiction e il cinema, senza sapersi decidere e così morendo in entrambe, è alto.

E c’è pure il rischio di una scelta coloristica oramai di maniera che permea tutte le ultime serie ambientate nel Novecento italiano. Rischio che diventa altissimo quando ci si inoltra nella tipologia del biopic, che nella tv di Stato spesso sfiora l’agiografia, con punte che rasentano lo zdanovismo in salsa catto-laicista. Ci rassicura, solo parzialmente, il fatto che si sia di fronte a una produzione europea.

Il primissimo impatto della visione de “Il cattivo poeta” (scritto e diretto da Gianluca Jodice, interpretato da Sergio Castellitto, candidato a cinque Nastri d’argento) è di trovarsi in una puntata di Meraviglie sul Vittoriale con una regia alla Montalbano e, a questo punto, siamo in attesa di veder spuntare all’improvviso Alberto Angela.

Il Vate e il suo labirinto

Ma è una sensazione che minuto dopo minuto passa, a mano a mano che il film prende corpo e si concretizzano le due linee narrative. Una riguarda la storia d’amore e politica del giovane “federalino” di Brescia, Giovanni Comini, catapultato in un ruolo importante per il Regime e, al contempo, impegnato in amore a convincere una tenace e diffidente Lina.

L’altra, che cresce poco a poco, è quella del comandante d’Annunzio, chiuso al tramonto della vita nel suo ritiro-prigione del Vittoriale di Gardone, sul Lago di Garda. Ad unire le due trame, la scelta di Achille Starace (segretario del Partito Nazionale Fascista) di incaricare il giovane Giovanni, che vanta anche un curriculum di scrittore, di entrare nelle grazie di d’Annunzio, così da spiarlo e impedire che possa diventare un problema per il Regime.

Un intenso Sergio Castellitto nei panni di Gabriele d’Annunzio ne Il cattivo poeta di Gianluca Jodice

Gli ultimi tre anni della vita del vate sono il focus del film. D’Annunzio gira per casa come in un labirinto, adorato dalle sue donne, circondato da amici che gli nascondono verità amare, nemici che si fingono amici (come il prefetto), infermiere che sono amanti e forse pure spie, una corte in cui nessuno sembra – tranne le sue amanti storiche, Amélie Mazoyer e Luisa Baccara – davvero sinceramente interessato a lui.

Circondato da un’aura di prestigio e rispetto, temuto dal potere di Roma per il suo presunto ancor vivo ascendente politico, che potrebbe mettersi di traverso alla storia e al nascente asse Roma-Berlino, l’autore delle Laudi viene mostrato con atteggiamenti eccentrici che sembrano tradire una certa demenza senile, salvo in certi passaggi rivelarsi pazzo come il lucido Amleto.

D’Annunzio sente con orrore il rapido sopraggiungere della vecchiaia mentre, proprio adesso, le energie gli servirebbero per impedire a Mussolini di legarsi a Hitler e condurre l’Italia dritta verso il baratro della seconda guerra mondiale.

Un viale del tramonto tutt’altro che quieto

I rischi per la pellicola erano molti: se si fosse messa troppo al centro la casa ci si poteva ritrovare in Fratelli in affari, mentre l’indugiare troppo sulle morbosità e il feuilleton avrebbe potuto farla assomigliare a Beautiful. Nel film del debuttante Gianluca Jodice tutto questo viene fortunatamente ed accuratamente evitato. Castellitto domina, con uno sguardo che non ha bisogno di parole. Il suo personaggio compare a poco a poco, emerge come dalle nebbie, si aggira per una casa buia come il tramonto che sta vivendo nell’anima e ancora più nel corpo.

Sergio Castellitto-d’Annunzio con Francesco Patanè-Giovanni Comini in una scena del film

Se nella figura del vate, nella bravura del primo attore, nella ricostruzione degli ambienti il film riproduce in maniera più che convincente gli anni Trenta (usando giustamente a mani basse un meraviglioso set già pronto, ovvero il Vittoriale), la pellicola pecca un po’ nella parte tipica del “romanzo di formazione”, ovvero la vicenda di Comini.

Non per la performance di Francesco Patané e neppure per l’idea, anche questa di prassi, della progressiva perdita dell’innocenza del giovane che si accosta con entusiasmo ingenuo al potere, quanto piuttosto perché un federale che scopre per caso che nello scantinato della casa del Fascio (dove lavora) i suoi torturano quasi a morte i sospetti antifascisti non si può proprio vedere.

Un ritratto e le sue ombre

Infine, una riflessione sulla figura storica di d’Annunzio resa dal film. Qui si lascia implicitamente intendere che sia stato ucciso per evitare che, nel discorso per l’insediamento come presidente dell’Accademia d’Italia, facesse dichiarazioni scomode al potere.

Eventualità non impossibile ma molto discutibile, visto che tra le tesi maggiori per la sua morte, oltre a quella naturale per un ictus ed emorragia celebrale, c’è piuttosto il suicidio. In un altro passaggio, si celebra il vate per la Costituzione di Fiume, con un precocissimo voto universale anche per le donne. Si insiste sul suo odio contro la Germania, il disprezzo per Mussolini, sul continuo prendere le distanze dal Fascismo e dai fascisti.

Certo, d’Annunzio è stato molte cose: giornalista, oratore, sommo poeta, romanziere, sceneggiatore di film muti, soldato, agitatore politico, deputato: ma un antifascista, ecco, quello no.

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