Le condizioni di vita dei palestinesi di Gerusalemme Est
L'eterno conflitto israelo-palestinese, che in questi giorni sta causando centinaia di vittime, ha come spesso accade radici lontane.
L'eterno conflitto israelo-palestinese, che in questi giorni sta causando centinaia di vittime, ha come spesso accade radici lontane.
Una delle cause principali del conflitto missilistico iniziato il 10 maggio 2021 è la sentenza di un tribunale distrettuale israeliano, prevista originariamente il giorno prima, nella quale si ordinava la confisca di diversi edifici nel quartiere arabo di Gerusalemme Est Sheikh Jarrah. Le istanze per gli espropri dei cittadini palestinesi dai quartieri orientali, per la maggior parte, sono state presentate da organizzazioni di coloni ebrei. Da metà degli anni ’70 a oggi queste organizzazioni hanno intrapreso una serie di azioni legali per poter riprendere possesso della terra in quanto “precedentemente posseduta da ebrei”. Nonostante a una prima occhiata appaia come una semplice disputa legale sulla proprietà, la confisca di beni privati da parte di uno Stato occupante viola la legge internazionale. Seguendo la storia della città di Gerusalemme, inoltre, si scopre che questo genere di operazioni sono una tendenza strutturata nella politica israeliana sul territorio.
Facendo un passo indietro, nel 1948 si costituì unilateralmente lo Stato di Israele che venne immediatamente attaccato da un’unione di stati chiamato “Lega Araba”. Dopo aver sconfitto gli aggressori, lo Stato ebraico conquistò le terre circostanti fino ad annettere parte della città araba di Al-Quds, ovvero Gerusalemme. La città fu quindi spaccata in due: a occidente il popolo di Israele, a oriente il popolo palestinese governato dal Re della Giordania. Inizia così, a metà di uno dei secoli più sanguinosi della storia, la disputa per la Città Santa. L’anno seguente alla divisione, la provincia di Gerusalemme fu dichiarata dall’ONU zona internazionale, per evitare gli spargimenti di sangue tra ebrei, musulmani e cristiani, ma il potere delle Nazioni Unite non è un fattore determinante e questa dichiarazione non sortì alcun effetto. Iniziò così una difficile convivenza durata appena vent’anni.
Nel 1967, infatti, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, lo Stato di Israele annetté unilateralmente i territori palestinesi che non aveva ottenuto dalle conquiste del ’48. Da quel momento Gerusalemme Est, come il West Bank, è occupato militarmente dallo Stato ebraico. Nessuno dei due popoli avrebbe voluto condividere la città, perché per entrambi rappresentava la Capitale ideale dello Stato che avrebbe controllato la regione. Nel 1950 il governo israeliano l’aveva già dichiarata capitale e ora, controllandola, poteva iniziare a plasmarla come tale.
Nel 1973, durante il governo di Golda Meir, fu istituito il Comitato Gavni, con lo specifico obbiettivo di pianificare azioni di geografia demografica che riducessero gradualmente la presenza palestinese assicurandone la stabilità. Questa iniziativa, di cui Israele non ha mai celato l’esistenza, prese il nome di Progetto E1 o Grande Gerusalemme. Una delle prime iniziative per portare a termine il piano, fu l’immediata annessione di 7.000 Dunam di terra circostante, popolata principalmente da arabi, alla municipalità della Gerusalemme israeliana. Originariamente alcune zone erano parti dei comuni di Betlemme e di Beit Jala e la divisione attraversava e divideva le comunità palestinesi, tanto che ben 28 villaggi furono assoggettati illegalmente allo Stato e alla legge di Israele. Grazie al sistema degli insediamenti e dell’innesto di coloni, questo accorgimento permise di ottenere una graduale superiorità demografica nell’area di Gerusalemme. Tale vantaggio è diventato vitale argomentazione delle rivendicazioni dello Stato Ebraico sull’intera città, rivendicazioni che per anni sono state osteggiate dalla comunità internazionale e dagli stessi palestinesi.
Per conoscere il numero di palestinesi rimasti in città e per sapere come gestirli, il governo israeliano ordinò un censimento subito dopo la conquista. Tutti coloro che non furono presenti a tale evento, perché fuggiti o assenti, persero definitivamente il diritto di abitare o fare ritorno a Gerusalemme Est. Per i restanti invece fu coniato un nuovo status giuridico: la condizione di “Residente Permanente”. Questo status esiste solo per i circa 200 mila residenti palestinesi della Città Santa, non per gli abitanti del West Bank, né per quelli di Gaza e nemmeno per quelli che vivono all’interno dello Stato Ebraico, tutti diversificati tra loro. Questa condizione giuridica, oltre a essere molto fragile, costringe gli abitanti a far parte dello Stato di Israele senza però garantire i diritti di cui può godere un normale cittadino. I titolari di questo permesso, infatti, vivendo in un territorio annesso militarmente da quasi cinquant’anni, non hanno cittadinanza in nessun Paese, possono viaggiare solo con documenti temporanei rilasciati dal governo israeliano o da quello giordano. In quanto residenti hanno il diritto di vivere e lavorare in Israele, ricevere prestazioni sociali ai sensi della legge che regola la previdenza sociale e disottoscrivere un’assicurazione sanitaria.
A differenza del normale cittadino, tuttavia, il residente non può partecipare alle elezioni nazionali né come candidato né come elettore, può partecipare alle elezioni locali ed essere eletto come consigliere comunale ma non può candidarsi per la carica di sindaco. Dal 1967 al 2003, il titolare della residenza permanente aveva diritto a presentare una richiesta per il ricongiungimento familiare qualora il coniuge non godesse del medesimo status, risedendo fuori dalla municipalità di Gerusalemme Est. Tali richieste venivano però accettate di rado. Nel 2003 la Knesset ha emanato un decreto che nega definitivamente la possibilità per gli abitanti di Gerusalemme Est di vivere con coniugi della Cisgiordania o della Striscia di Gaza all’interno di questo territorio, salvo rarissime eccezioni, impedendo l’acquisizione dello status giuridico legittimante anche ai figli nati da queste unioni.
Il modo più semplice di perdere questa condizione è quello di non risiedere fisicamente per un lungo lasso di tempo nell’area, ma spesso la perdita del diritto viene riservata anche a chi è sospettato di dissidenza politica e ai loro coniugi. Dal 1967 a oggi i palestinesi a cui è stato revocato lo status di residente permanente sono circa 14.500. Grazie alla politica filoisraeliana di Donald Trump e all’epidemia di Coronavirus che ha coinvolto l’intero pianeta, nel 2020 questo fenomeno è cresciuto notevolmente. L’ONU ha dichiarato che, rispetto al 2019, l’anno scorso il numero delle strutture soggette a demolizioni o confische ha avuto un incremento del 55% toccando il picco massimo mai registrato. Solo lo scorso anno sono stati demoliti 170 edifici palestinesi di cui 105 case che hanno provocato lo sfollamento di 385 persone.
La frammentazione del popolo palestinese nell’accesso al diritto e l’impossibilità di poter ottenere l’insieme dei privilegi dati dalla cittadinanza, infatti, è una delle argomentazioni a cui fa riferimento la tesi, proposta da parte della comunità scientifica, che definisce Israele uno stato di Apartheid.
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