Il mondo resta a guardare
Israele-Palestina: come siamo arrivati a tutto questo? Proviamo a dare una risposta all'ennesimo capitolo di una guerra mai definitivamente chiusa.
Israele-Palestina: come siamo arrivati a tutto questo? Proviamo a dare una risposta all'ennesimo capitolo di una guerra mai definitivamente chiusa.
Sono ormai oltre un centinaio i morti, molti sono civili, alcuni bambini. La questione palestinese torna prepotente alle cronache per l’esacerbarsi degli scontri, che potrebbero dilagare in un conflitto vero e proprio. Ieri peraltro l’esercito israeliano è entrato a Gaza; il portavoce dell’esercito israeliano ha elencato orgoglioso tutti gli obiettivi colpiti nei raid aerei, aree sensibili dove si nascondono terroristi, si costruiscono razzi e addestrano militanti. Dimentica di aggiornare il conto dei morti: per lui valgono soltanto i nomi famosi, quelli che portano lustro all’operazione. Parla guardando l’obiettivo, per nulla sfiorato dal pensiero degli esseri umani; è evidente che per lui si tratta di bersagli, usa la parola target più volte, non di persone.
Avevamo già analizzato le ragioni ed evoluzioni storiche di questa incompatibilità, ma proviamo ora a capire come si sia arrivati alla guerra dichiarata e perché proprio in questo momento.
Gli attacchi di questi giorni trovano origine nella strana natura della Città Santa, santa per moltre religioni, specialmente per le due in gioco; una città che in realtà sono due, sovrapposte e con nomi diversi: Gerusalemme per gli ebrei e al-Aqsa per l’Islam. La città è divisa in zone “riservate” alle due religioni – a ovest gli ebrei, a est i musulmani – ma i luoghi di culto sono strettamente confinanti, si pestano i piedi.
Intorno a metà aprile, si sono tenute due celebrazioni congiunte: il Memorial Day dei soldati ebrei caduti da un lato e l’inizio del Ramadan dall’altra parte del Muro del Pianto. Il richiamo del muezzin disturbava il rispettoso silenzio ebraico e la polizia ha pensato bene di togliere la corrente agli altoparlanti, scatenando una protesta da parte araba tempestivamente repressa dalle forze anti-sommossa, che hanno di fatto rastrellato l’area musulmana e impedito l’accesso ai fedeli. Questa la fiammata incendiaria, che però è solo una parte delle provocazioni degli ultimi mesi. Un elemento comune a tutti gli scontri è la pesante disparità dei mezzi di offesa e difesa: granate stordenti, gas lacrimogeni, manganelli e pallottole di gomma da una parte, sassi e bastoni dall’altra. Nel successivo step ai razzi a corto raggio lanciati coi mortai hanno risposto i droni bombardieri.
Israele è incapace di formare un Governo, nonostante quattro tornate elettorali in due anni; Benjamin Natanyahu e il suo partito di destra, il Likud, non hanno la maggioranza assoluta e devono cercare coalizioni di compromesso, ogni volta rivelatesi fragili. La Sinistra da qualche mese sta tentando di allearsi ai partiti arabi ammessi al Parlamento israeliano per estromettere il Re Bibi, con buoni progressi. Per evitare di essere cacciato (e probabilmente condannato per le cause di corruzione in corso), Netanyahu ha pensato, in vista dell’ultima elezione, di favorire la nascita del partito di ultra-destra, il Religious Zionist Party, con cui allearsi poi e governare il Paese. Il partito Religioso Sionista ha fatto meglio delle attese, garantendosi 6 seggi nel Parlamento, anche se un Governo ancora non c’è. I suoi iscritti sono gli stessi che il giornale israeliano Haaretz, in un articolo di Gideon Levy del 24 aprile scorso, definisce “neofascisti che scorrazzano per le strade della zona araba con azioni intimidatorie, punitive e danneggiando le proprietà palestinesi”. Negli ultimi giorni ci sono anche stati sfratti forzosi, piuttosto violenti, di famiglie palestinesi che vivevano in un quartiere che Israele ha avocato a sé, in un continuo ridisegnare i confini tra le zone del tutto unilaterale. Ecco come si crea il terreno fertile per far divampare un incendio al primo cambio di vento. Ecco come si può alla fine chiamare un’azione di guerra “risposta legittima agli attacchi missilistici e alle proteste”.
Un altro fattore politico riguarda la Palestina, dove sono state cancellate all’ultimo le prime elezioni in 15 anni, cancellazione che gli arabi imputano al veto di Israele ai cittadini di Gerusalemme est. È vero ma riteniamo non sia l’unico motivo: il presidente dell’Autorità Palesinese, Mahmoud Abbas, ha colto infatti al volo il veto israeliano per scaricare la colpa di un rinvio che fa molto comodo anche a lui, minacciato dalle divisioni interne al suo partito Fatah, che avrebbero lasciato con tutta probabilità la vittoria a Hamas, la flangia estremista. Anche Hamas quindi guadagna in popolarità a ogni ritorsione israeliana, soffiando sotto il fuoco delle proteste.
Netanyahu, come i suoi predecessori, segue l’ideologia fissata cent’anni fa da Ze’ev Jabotinsky, nel suo libro “Il Muro di Ferro”, secondo la quale “i Palestinesi sono furbi, non si possono comprare o corrompere perché concedano la propria terra ai nuovi arrivati; pertanto, vanno portati alla massima disperazione, con mezzi di coercizione e con la forza”. Per decenni il microcosmo di Gerusalemme è stato “giudaizzato” un pezzetto alla volta, una demolizione o confisca alla volta. Si è arrivati al punto di sconsacrare luoghi di culto musulmani e convertirli alla religione ebraica. L’ex sindaco di Gerusalemme ovest, Meron Benvenisti, parla di “sistematico esproprio su larga scala dei luoghi sacri dell’Islam sconfitto da parte dei vincitori ebrei”; tutto questo sotto gli occhi del mondo e non, come verrebbe da pensare, nel medioevo ma negli ultimi cinquant’anni.
Sul fronte internazionale, si sono espressi in modo deciso soltanto la Turchia che “farà quanto in suo potere per mobilitare il mondo intero, soprattutto quello islamico, per fermare l’occupazione” e la Giordania, che definisce i raid aerei una “barbarie israeliana”. La Lega Araba parla di “attacchi indiscriminati e irresponsabili” da parte di Israele che sarebbe “responsabile della pericolosa escalation di violenza”. L’ONU non è riuscita a concordare una dichiarazione comune, figuriamoci a fare qualcosa per fermare la guerra. La UE è ferma alle dichiarazioni di rito ma poco aggiunge in termini di possibili interventi e soluzioni. E gli USA non commentano; i creatori ultimi di questa situazione, che hanno orchestrato la nascita dello Stato stesso di Israele, restano in preoccupante silenzio, forse troppo impegnati a negoziare con l’Iran per distrarsi a rappacificare chi hanno contribuito a dividere.
Nel frattempo, il dispendio militare è enorme, sia per le limitate risorse palestinesi che per i droni iper-tecnologici utilizzati da Israele per la sua “guerra pulita”. Il costo umano è anche più grande: la Storia insegna che, dopo ogni battaglia tra i due Stati, i Palestinesi sono stati relegati in spazi sempre più angusti, privati dei loro diritti umani, rinchiusi in un grande zoo circondato da filo spinato. Se la comunità internazionale non fa qualcosa in fretta, stavolta rischiano di essere spazzati via.
Tutto il mondo si dichiara a favore della pace, ma nessuno ha davvero sufficiente interesse nella questione palestinese per rischiare di alterare equilibri economici e politici. Sia gli ebrei che i palestinesi sono colpevoli, perché in questa brutta storia nessuno è innocente. L’unico modo per uscirne è dimenticare il concetto di torto o ragione e pensare in termini di esseri umani, di diritto alla vita e alla felicità. Chissà se questa parola esiste in yiddish e in arabo, chissà se ha lo stesso suono, come per tante altre di due popoli tanto simili quanto incompatibili.
© RIPRODUZIONE RISERVATA