Primavera ’91 – Balcani: così vicini, mai così distanti
30 anni fa la Stella Rossa saliva sul trono del calcio europeo. Nemmeno due mesi dopo l'ex Jugoslavia veniva dilaniata dalla guerra.
30 anni fa la Stella Rossa saliva sul trono del calcio europeo. Nemmeno due mesi dopo l'ex Jugoslavia veniva dilaniata dalla guerra.
Così vicini, mai così lontani. I Balcani sono lì, da sempre, «davanti a me, appena dall’altra parte del mare», come introduce perfettamente Roberta Biagiarelli nel suo Souvenir Srebrenica.
Dall’altra parte del mare, può apparire scontato, ma non lo è. Perché proprio trent’anni fa, nella tarda primavera del 1991, abbiamo compreso che anche le distanze geografiche possono mutare. Che un mare può restringersi o distendersi all’infinito a seconda degli occhi che lo guardano, delle esigenze politiche o delle narrazioni di regime.
Pure la seconda domanda che la Biagiarelli si pone all’inizio del suo monologo è perfettamente centrata. «Cosa c’è dall’altra parte?». Dall’altra parte dell’Adriatico ci sono una squadra e un mondo, a vivere stati d’animo opposti.
C’è la Crvena Zvezda, la Stella Rossa di Belgrado, che si sta preparando all’appuntamento più alto mai raggiunto da una formazione slava: la finale di Coppa dei Campioni contro l’Olympique Marsiglia in programma il 29 maggio, a Bari.
Italia, Jugoslavia, Occidente, mai così vicini come in quei giorni. Attorno a quella squadra però c’è un mondo, quello balcanico, che ha già fatto capire a tutti di essere pronto alla deflagrazione totale. Il referendum sull’indipendenza slovena del dicembre precedente non può lasciare dubbi.
Se lo spirito di una Jugoslavia unita è mai esistito, quella Stella Rossa sta provando a tenerne incollati i cocci. Decisa a riprendersi quello che la nebbia le ha tolto due stagioni prima, nel novembre del 1988. Quando la Košava, il freddo vento che soffia dai Carpazi e solitamente spazza la città di Belgrado, ha scelto di placarsi per un pomeriggio, trasformando il Rajko Mitić (anche noto come Marakana) in un angolo di bassa padana. Con un nebbione irripetibile dal quale sarebbe emersa, il giorno dopo, la leggenda del Milan sacchiano.
Ma parlavamo di spirito e unità. In quella primavera le braci della disgregazione ardono più che mai, ma la propaganda nazionalista e la collusa cecità occidentale preferiscono però raccontare un’altra storia. D’altronde, cosa c’è di meglio di una squadra multietnica, pronta a giocarsi il trono del calcio europeo, per autoconvincersi e per assecondare le richieste di un’informazione che brama verità superficiali e facilmente titolabili?
Nei giorni che intercorrono tra la semifinale di ritorno col Bayern Monaco e la finalissima, abbiamo la plastica rappresentazione del paradosso di Schrödinger. In quelle tre settimane o poco più, infatti, la Jugoslavia è morta e, contemporaneamente, viva.
È già morta nelle periferie dei grandi centri urbani, negli uffici del potere e nelle valli dinariche, le Krajine, dove cova un risentimento aizzato ad arte. Da anni stanno riemergendo concetti già sperimentati in passato, quando si vuole destabilizzare una nazione. Sacrificio, popoli eletti e riletture artefatte di mitologie secolari, come quella del sacrificio del principe Lazar nella battaglia di Kosovo Polje.
La Jugo teorizzata dal “Maresciallo” sopravvive invece, almeno all’apparenza, nello spogliatoio biancorosso, dove ancora sembrano convivere tutte le etnie della famosa filastrocca dei “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito“.
Diamo un’occhiata, allora, a quella squadra; maggioranza serba, ovviamente, con in mezzo al campo i giovani in rampa di lancio Vladimir Jugović e Siniša Mihajlović. A rappresentare la Bosnia c’è Refik Šabanadžović, terzino destro, davanti a lui, a garantire fosforo e qualità, c’è il croato (con madre serba) Robert Prosinečki. Sull’out destro trova spazio tutta l’imprevedibilità montenegrina di Dejan Savićević. Come centravanti l’abbaglio più grande, come hanno presto scoperto gli interisti, l’orgoglio del Vardar, di Skopje e di tutta la Macedonia: Darko Pančev.
L’unico straniero è il libero romeno (di padre serbo) Miodrag Belodedici, e proprio la storia del suo arrivo a Belgrado è quella che più sconfina nella leggenda e nel romanticismo patriotico che tanto piace in quegli anni in riva al Danubio. Vale la pena spenderci qualche secondo. Belodedici, in fuga dalla Romania in fiamme di Ceausescu e dallo Steaua Bucarest, infatti, anziché riparare in qualche squadra occidentale bussa alla porta della Stella. Aveva scelto di giocare nella squadra del suo cuore e tifata dal padre, raccontano, diventandone il perno della retroguardia.
Si arriva quindi al 29 maggio. Allo stadio San Nicola va in scena quella che, a detta di molti, è la più brutta finale di Coppa dei Campioni della storia. Pochissime emozioni. L’unico lampo è nei supplementari, quando i francesi fanno entrare in campo l’ex cuore pulsante della Zvezda, quel Piksi Stojković che qualche minuto dopo si rifiuterà di battere i calci di rigore contro i suoi vecchi compagni.
Ed è proprio nella lotteria dal dischetto che i confini tra Europa e Jugoslavia raggiungono il massimo della loro elasticità. Si accorciano a soli 11 metri, fino a scomparire nel momento esatto in cui Pančev scaglia in rete il pallone decisivo. Il cronista della televisione serba urla a squarciagola il suo nome nel microfono, mai come in quell’istante Bari, Belgrado e finanche Parigi sembrano tutti parte dello stesso mondo.
L’illusione dura lo spazio di un giro di campo, con la coppa sollevata al cielo. Il 25 giugno il parlamento sloveno si riunisce per votare l’indipendenza. Nel corso della seduta, poco prima della votazione definitiva, viene data lettura di un telegramma appena pervenuto da Zagabria: il Parlamento croato comunica che la Croazia è indipendente. Ad avvenuta votazione, nella piazza centrale di Lubiana il presidente Milan Kučan proclama l’indipendenza slovena. Nelle battute finali del suo discorso c’è tutto il programma dei mesi successivi. «Nocas su dovoljene sanje, jutro je nov dan» – “stasera i sogni sono permessi, domani è un nuovo giorno”. Inizia così la prima guerra in Europa dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Nell’agosto del 1991 arriva Vukovar, l’assedio, i massacri e quella scritta, “non sono di questo mondo” sul muro crivellato di colpi dell’ex stazione degli autobus. Da lì in poi i nomi da mandare a memoria non saranno più quelli dei giocatori, ma altri: Karadžić, Sarajevo, Knin, Tujman, fino ad Arkan, che proprio nella devastazione di Vukovar fa la sua apparizione assieme ai suoi mercenari, le “tigri”, scelti e formati tra i peggiori strati della tifoseria della Stella Rossa, i Delije (gli Eroi). A quel punto, però, i Balcani sono già talmente distanti che chiudere gli occhi è fin troppo facile.
La Stella Rossa, a dicembre, sconfigge i cileni del Colo Colo e si prende anche l’Intercontinentale. Ma, a quel punto, la luce si è già spenta. La parabola della squadra viaggia parallela a quella di una nazione che si sta sfaldando. Tutti i migliori giocatori sono venduti a squadre occidentali, molti in Italia, e gli incassi miliardari vengono fatti sparire dalla dirigenza o dirottati su asset non propriamente sportivi. La guerra, ora, è più redditizia, e il club viene abbandonato a sé stesso. In questi trent’anni è passato di mano in mano, tra abnormi buchi di bilancio, speculazioni, interventi para-statali e qualche fugace apparizione sul palcoscenico europeo.
Il calcio slavo non ha più raggiunto certi apici, molto probabilmente mai più li toccherà. Resta il ricordo, di una notte pugliese e di un mondo che, mai come in quegli istanti, sembrava così vicino. Pareva quasi di poterlo toccare.
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