Per portare a termine la transizione energetica come programmato dal Green New Deal in tutte le nostre attività dovremmo sostituire i combustibili fossili con energia rinnovabile entro il 2050. Una bella affermazione che formulata in modo astratto raccoglie, forse, il consenso di tutti mentre nel concreto apre a feroci discussioni e violenti confronti fra interessi contrapposti.

Si dovrà decidere, ad esempio, come verrà prodotta l’energia rinnovabile, come verrà veicolata, come verranno destinate le vecchie infrastrutture ora asservite all’uso dei combustibili fossili.

Mentre per carbone, benzina, gasolio e i derivati dal petrolio il destino sembra abbastanza chiaro, perché verranno sostituiti prevalentemente da elettricità rinnovabile e le “pompe di benzina” rimpiazzate da colonnine per la carica elettrica, per il metano la prospettiva è molto più complessa.

Il metano CH4 è un idrocarburo gassoso, il meno inquinante fra i combustibili fossili, facile da usare e gestire, arriva in tutte le case. Il suo utilizzo è iniziato negli anni ’50 a seguito della scoperta di alcuni giacimenti nella Pianura Padana da parte dell’Agip di Enrico Mattei. Da quel momento una vasta ragnatela di tubazioni ha iniziato a ricoprire il territorio.

Non c’è stato sindaco che non aspirasse a portare il metano ai propri cittadini costituendo “società municipalizzate” per gestirne la distribuzione.

Ora la maggior parte dell’Italia è “collegata” (tranne la Sardegna), il metano rappresenta da diversi anni il 40% del nostro totale consumo energetico, solo il 5% dei 75 miliardi di metri cubi anno di gas che bruciamo proviene dai giacimenti nazionali mentre il rimanente deve essere importato  attraverso grossi gasdotti da Russia, Libia, Algeria  e con navi metaniere da Qatar e USA. 

Snam gestisce la rete di trasporto gas nazionale e i collegamenti internazionali, invece le reti cittadine sono di competenza di società sviluppatesi dalle vecchie municipalizzate, come Megareti/Agsm per Verona. 

Se tutto questo verrà azzerato dalla rigenerazione energetica, cosa sostituirà il metano? Cosa succederà a coloro che ora lo estraggono e lo vendono? Tutte le tubazioni, i compressori, i contatori che lo trasportano potranno essere in qualche modo riutilizzati o giaceranno come arterie vuote in un corpo morto? Cosa succederà alle aziende come Snam e Megareti/Agsm?

Si comprende facilmente che molti interessi verranno messi in discussione  e si intuisce che la strada per l’implementazione del Green New Deal sarà molto incidentata.

Da qualche tempo infatti, su questo tema, viene alzata un’imponente cortina fumogena colorata chiamata Idrogeno.

L’idrogeno H2 è un gas che si ricava dagli idrocarburi (es. metano) dove è combinato con il Carbonio,  o dall’acqua dove è combinato con l’Ossigeno. Se prodotto dall’acqua utilizzando energia elettrica eolica o fotovoltaica è chiamato Idrogeno Verde e possiede tutte le caratteristiche per essere un vettore energetico rinnovabile e quindi coerente con il programma di decarbonizzazione della Commissione Europea.

L’Hydrogen strategy for a climate-neutral Europe, pubblicata l’8 maggio 2020, assegna all’Idrogeno Verde una quota del  13-14% nel mix energetico europeo al 2050, dedicandone l’uso prevalentemente ai settori industriali hard-to-abate, dove non esistono alternative per abbattere la CO2 (acciaierie, cementifici etc), ad alcuni speciali mezzi di trasporto e per bilanciare la rete elettrica. Per questo scopo è previsto installare espressamente numerosi parchi eolici di grande potenza soprattutto in prossimità degli impianti produttivi (vedi l’ex Ilva di Taranto).

Pensare all’Idrogeno Verde come puro sostituto del metano, in tutti i suoi attuali utilizzi, é impensabile. Questa prospettiva non dà pace agli operatori come ENI, Snam e ai loro omologhi europei, fortemente esposti nella produzione e gestione del gas naturale che, per evitare il deprezzamento del loro patrimonio, ne inventano di “tutti i colori”. 

Quello più gettonato sembra essere il blu dell’Idrogeno Blu prodotto con lo steam reforming del metano e successivo stoccaggio della CO2 co-prodotta in serbatoi naturali, per un periodo illimitato.  Si tratta di un tipico esempio di processo lineare, usa e getta, con una forte incognita sulla capacità di immagazzinamento sotterraneo della CO2, proprio quello che il Green New Deal vorrebbe combattere e che le imprese dei combustibili fossili propongono invece come virtuoso solo perché “nasconde la CO2 sotto il tappeto”.

Per questa strada si produrrebbe molto idrogeno (blu), con un rendimento complessivo dubbio ma che utilizzerebbe in parte l’attuale struttura distributiva del metano.

Un progetto ENI di generazione di Idrogeno Blu a Ravenna che prevedeva di trasformare 400 siti sul fondo dell’Adriatico, un tempo pieni di gas naturale e ora vuoti, nel più grande magazzino al mondo di stoccaggio della CO2,  è stato al centro di una delle più violente e nascoste discussioni durante la predisposizione del PNRR (Piano Nazionale Rilancio Resilienza).  

Alla fine il progetto è stato escluso dai finanziamenti del Recovery Plan più per un intervento dell’Europa che per una chiara convinzione dei partiti di governo.

«Sarebbe paradossale usare i combustibili fossili per fare l’idrogeno» si è affrettato a dichiarare il ministro Roberto Cingolani in un’ intervista al giornale La Repubblica dopo l’approvazione del PNRR in Parlamento. La “guerra dei colori” è però solo iniziata e si trasferirà presto anche a livello locale coinvolgendo le amministrazioni che al tempo avevano contribuito alla metanizzazione del Paese.

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