È il 1951 quando Steno e Monicelli firmano la co-regia di un film che dovrebbe intitolarsi E poi dice che uno… (sottinteso: si butta a sinistra). Il titolo non piace però alla censura preventiva, che propone il più adeguato Totò e i re di Roma – nome con cui il film uscirà nella sale. Ma quella del titolo non è l’unica disavventura censoria della pellicola.

La storia narra di Ercole Pappalardo (Totò), archivista capo che per conservare il posto deve ottenere la licenza elementare. Ad esaminarlo è il maestro Palocco (Alberto Sordi), che mette in difficoltà Pappalardo domandandogli il nome di un pachiderma – parola di cui il povero archivista ignora il significato. Senza farsi notare, un esaminatore tenta di suggerirgli la risposta. Mima un naso lungo e delle grandi orecchie, un elefante. Ma Pappalardo fraintende e risponde con convinzione: «Bartali!». Palocco si fa una grassa risata e rimprovera l’esaminando: «Vedo che lei non ha perso l’abitudine d’insultare i suoi superiori!»

Ora, com’è anche solo lontanamente possibile considerare un ciclista il “superiore” di un impiegato d’ufficio? Dove si consuma la battuta e perché fa tanto ridere il personaggio di Sordi? Il motivo è che la riposta da copione e recitata da Totò sul set era «De Gasperi» – a cui appunto non mancavano certo due belle orecchie a sventola e un naso pronunciato. L’allusione all’allora presidente del Consiglio viene però ritenuta inappropriata e per questo sostituita. A chiunque riguardi il film oggi non sarà difficile notare l’evidente fuori sincrono delle labbra e il diverso timbro vocalico dell’inimitabile Totò.

Un fermo-immagine da Totò e i re di Roma, nel momento in cui l’attore pronuncia il nome di De Gasperi, poi doppiato malamente con “Bartali” per i limiti imposti dalla censura.

Fine dei divieti di uscita in sala

Un tale comportamento da parte della censura non sarà più possibile d’ora in poi. Lo scorso 5 aprile il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha firmato un decreto che istituisce una commissione per la classificazione delle opere cinematografiche presso la Direzione generale Cinema. Presieduta da Alessandro Pajno, il suo compito è di verificare la corretta auto-classificazione delle opere da parte degli stessi produttori e distributori. L’organico prevede un totale di quarantanove componenti, scelti tra vari esperti del settore, ma non solo. Ad ampliare l’efficacia della commissione saranno esperti della tutela dei minori e della comunicazione sociale, nonché alcuni designati dalle associazioni dei genitori e per la protezione degli animali.

Questo intervento decreta inoltre la fine della cosiddetta censura, attraverso la quale lo Stato ha spesso imposto limitazioni in materia di cinema – entrando il più delle volte a piè pari nelle scelte creative degli autori. Con questa decisione, non sarà quindi più possibile vietare ad alcuna pellicola l’uscita in sala o imporle tagli sostanziali. La nuova commissione potrà suddividere i film in quattro categorie:

  • film per tutti
  • non adatti ai minori di 6 anni
  • vietati ai minori di 14 (ma consentiti ai dodicenni accompagnati da un adulto)
  • vietati ai minori di 18 (ma consentiti ai sedicenni, sempre accompagnati).

Il destino dei contenuti scomodi

Che questo sia un piccolo grande passo per il cinema italiano è cosa ovvia. Totò e i re di Roma, infatti, è solo uno fra i tanti film sottoposti a riedizione. Per la precisione, tra il 1960 e il 2013, sono stati ben 2159. In casi come questi, gridare all’ingiustizia è doveroso, ma è altresì giusto pesare le parole con cui lo si fa.

Se è vero che sono stati molti gli autori messi a tacere, non di meno sono stati i distributori che hanno passivamente accettato la situazione, tagliuzzando di qua e di là diverse pellicole con il solo scopo di ottenere il visto e allargare così la fetta di pubblico e gli introiti al botteghino.

Per un distributore italiano, tagliare la scena di un film slasher (un sottogenere dell’horror, ndr) è indubbiamente irrispettoso nei confronti della pellicola, ma non è certo come per Pasolini tagliare una scena di tortura in Salò e le 120 giornate di Sodoma – funzionale e necessaria alla narrazione. La differenza che intercorre fra questi due antipodi è fondamentalmente una: l’uso politico del mezzo. Da una parte si parla di spettacolarizzazione della violenza (e non vi è nulla di male, anzi, il cinema è anche questo). Dall’altra si parla di autori che, per le loro idee, sono considerati scomodi.

Pier Paolo Pasolini durante le riprese di Salò e le 120 giornate di Sodoma

È scomodo Pasolini, che con le sue 120 giornate denuncia i crimini violenti di un fascismo a lui ancora contemporaneo, e che si vede negare l’uscita in sala. È scomodo Mustafa Akkad, che con Il leone del deserto racconta la resistenza libica, censurato in Italia in quanto “lesivo all’onore dell’esercito italiano” e ancora oggi mai trasmesso dalla tv pubblica. È scomodo Kubrick, il cui violento Arancia meccanica viene autorizzato con il divieto ai minori di 18 anni e ottiene la messa in onda televisiva solo dopo un ricorso al TAR.

Più che una conquista, una cosa dovuta

L’essere scomodi sembra dunque il tratto comune a tutti i cineasti che per le loro idee sono stati ostacolati. In loro la censura ha individuato un “troppo”, un eccesso che meritava di essere cancellato o reindirizzato. Ma è bene ricordare che, nella maggior parte dei casi, tanto più un’idea suscita l’interesse della censura, quanto più quell’idea mette in discussione uno status quo che, per alcuni, sarebbe conveniente lasciare inalterato.

Il punto della questione, quindi, non è tanto il «Bartali!» di Totò. Il punto è che dietro si nasconde un’ideologia politica silenziosa e lesiva del cinema e dell’arte tutta.

La censura, in tal senso, più che arrecare danni, ha occultato i danni latenti di un sistema di cui essa stessa era parte integrante. Dirle addio è indubbiamente un passo avanti.

Oggi però, in mezzo ai tanti problemi che affliggono il cinema italiano, più che una conquista sembra essere una cosa dovuta, niente di più e niente di meno. Questo forse lo avrebbe pensato anche Totò, che di fronte a quel doppiaggio raffazzonato avrebbe probabilmente esclamato: «Ma mi faccia il piacere…»

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