Il Sultano rampante
Il premier turco Erdogan prosegue imperterrito il suo percorso per rendere il suo Paese sempre meno democratico e sempre più lontano dai valori occidentali.
Il premier turco Erdogan prosegue imperterrito il suo percorso per rendere il suo Paese sempre meno democratico e sempre più lontano dai valori occidentali.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan continua a sorprendere ogni giorno con nuove iniziative indirizzate a imporre un regime autocratico e liberticida in patria, mentre all’estero la sua sfera di influenza somiglia sempre più all’impero Ottomano. La Turchia versa in condizioni economiche disastrose e a poco serve cambiare ministri economici appena si dimostrano incapaci di fare miracoli; la lira turca vale poco niente, le riserve in valuta pregiata sono ormai ridotte ai minimi termini e i rapporti con la comunità internazionale tesi. Eppure, il Sultano procede con il programma, appena infastidito dagli articoli di giornale e forte del sostegno di una parte influente della popolazione. Per capire qualcosa di oggi, come sempre facciamo un passo indietro.
L’impero Ottomano viene dissolto nel 1922, con gli accordi di Losanna. La Repubblica di Turchia è il risultato della cessione di sovranità su territori reclamati da diverse nazioni, alcuni ricchi di risorse naturali. Il primo presidente turco, Mustafa Kemal, intraprende un programma di riforme in chiave occidentale, sostituendo la legge canonica islamica con un codice civile. Le donne ottengono diritti politici e, curiosità, tutti ottengono un cognome, inesistente prima del 1934. A Kemal il Parlamento assegna in via esclusiva il cognome di Atatürk, ovvero Padre della Patria. Seguono decenni di graduale crescita economica e sociale, resi possibili dalla laicità dello Stato. È evidente infatti che l’attuale idealizzazione del passato prospera nella sua identità islamista.
Fast forward fino agli anni ‘70, muove i primi passi il movimento politico-religioso “Milli Göruş” (visione nazionale – nda) fondato dal mentore di Erdoğan, Nehmettin Erbakan (anch’egli premier a fine anni 90), che teorizzava una nuova centralità dell’islam nella vita politica e sociale, seppur con un orientamento verso l’Occidente. A partire da fine anni ‘80. si nota un ulteriore divergenza dallo stato kemalista: il neo eletto primo ministro Turgut Özal trasforma l’economia del Paese in ottica internazionale, dando vita con le sue politiche neoliberali a una nuova borghesia di conservatori. Nello stesso periodo del suo mandato (1989-1993) alcuni fatti internazionali contribuiscono al risveglio dell’islamismo: la deportazione dei musulmani dalla Bulgaria, il genocidio in Bosnia, l’occupazione armena del Karabakh (ancora oggi nelle cronache) e ovviamente la prima Guerra del Golfo. Alla concezione di Özal di un Ottomanesimo islamista ma anche europeista, si contrappone con forza crescente un ideale nostalgico, un senso di patria che trascenda le nazioni e riunisca tutti i musulmani dell’Impero in una grande comunità. E così l’islam torna inamovibile al centro del progetto.
La parola turca per patria, vatan, non richiama confini geografici, tantomeno se tracciati dai vincitori, bensì un’area di influenza sovranazionale, un luogo dello spirito che qualunque adepto del neo-Ottomanesimo può sentire come casa. Mentre la Turchia diventa sempre più prospera, l’élite conservatrice ricca e potente alza i toni, condannando le riforme kemaliste come una perdita di valori. Ne fanno parte alcuni tra i politici che si sono scambiati negli ultimi trent’anni (e più volte) i massimi vertici del Paese: Abdullah Gül, Ahmet Davutoğlu e ovviamente il Sultano Erdoğan.
«Questa patria è indubbiamente nostra ma rifiuto una concezione della storia turca che parta dagli anni ‘20 e cancelli 600 anni della nostra civiltà. – ha detto il presidente in un recente comizio – Fino a un secolo fa, non c’erano differenze tra Bursa, Mosul o Skopje. I politici hanno creato confini artificiali per distribuirsi le ricchezze petrolifere, approfittando della struttura pluralista dello Stato Ottomano, ma i nostri confini spirituali non potranno essere separati».
Erdoğan lascia il suo mentore e fonda un suo partito (AKP) a inizio secolo, che si allea con il movimento nazionalista MHP, garantendo a sé e ai suoi accoliti decenni di governo incontrastato. Il quarto a briscola è stato per molti anni il predicatore Fetullah Gulen, figura di spicco in AKP in autoesilio negli USA dal 1999, cui sono riconducibili movimenti culturali, membri di facoltà universitarie. Quello che era il think tank di Erdoğan, diventa personaggio scomodo, troppo influente e ficcanaso negli affari del Governo. A lui il Sultano imputa il tentato colpo di stato del 2016, quando i militari bombardano il Parlamento ed entrano nelle piazze delle principali città. Al quarto colpo di stato in meno di 100 anni di vita, il popolo stavolta reagisce e combatte, riuscendo a cacciare gli insorti. Oltre 200 morti e più di 2000 feriti in una notte di scontri, che da molte analisi imparziali sembra possibile sia stata orchestrata ad arte proprio dal Sultano. Non ci sono prove, ovviamente; né a favore della tesi del complotto gulenista né di una orchestrazione interna. Non si trovano, nonostante le indagini, messaggi tra i gulenisti (da sempre sotto controllo dello Stato) in cui si parli anche in codice dell’imminente attacco, così come mancano sia un movente concreto che i mezzi per controllare le alte gerarchie dell’esercito. Ci sono invece evidenti benefici per la vittima ufficiale, che stranamente non si trovava nei palazzi istituzionali bombardati, che per coincidenza era in un luogo segreto e sicuro. Da quel luglio 2016, il popolo si convince di essere in pericolo e approva entusiasta un referendum che ne limita pesantemente le libertà civili, dando invece al Sultano poteri praticamente illimitati e incontrollati.
La politica estera del presidente turco assume diverse connotazioni a seconda della zona di interesse, a seconda sia più efficace l’approccio economico o militare. Riprendendo la cartina imperiale, proviamo a fare un giretto per capire quale sia la situazione attuale.
Nel Maghreb la sua influenza è prettamente economica, forte di accordi commericiali, di investimenti produttivi (circa 800 aziende) sia in Algeria che Tunisia. Si stima che circa 5 milioni di turchi vivano stabilmente nei due paesi, cui si aggiunge la Libia, che merita un discorso a parte, già fatto in precedenti articoli. L’Egitto è la dimostrazione, seppur fallita, del soft power che può esercitare il governo turco, imponendo di fatto il proprio uomo, Morsi, come presidente. Dalla destituzione e arresto di Morsi, i rapporti si sono deteriorati al punto che la Turchia è l’unico Paese che abbia un processo in corso contro l’Egitto, su denuncia di egiziani che hanno subito torture e discriminazioni in patria. Un po’ tipo pagliuzza e trave, insomma.
Il nuovo impero si estende anche al Sahel e alle coste della Somalia, dove l’importante base militare non è gradita e subisce continui attacchi terroristici. Un’altra base militare si trova sull’isola sudanese di Suakin e potrebbe di fatto controllare il traffico commerciale in transito sul Mar Rosso, mentre nel Golfo Persico esiste un contingente di circa 200 uomini stanziati nel Qatar.
Spostandoci verso il Medio Oriente, sono noti i tentativi (altro fallimento) di rovesciare il regime di al-Assad in Siria, che prosegue ancora ma per procura, grazie alla forte influenza sulle milizie jihadiste. Stesso metodo in Iraq, dove le postazioni del PKK (fronte di liberazione curdo) ma anche i civili inermi vengono ripetutamente bombardati in raid aerei oltre confine senza ostacoli.
Nei Balcani, durante la guerra di Bosnia, la Turchia sostiene i Bosgnachi musulmani, con cui sono numerosi i vincoli familiari; sostegno che viene poi allargato a tutti gli ex yugoslavi di fede islamica. Erdoğan nel 2010 ospita l’incontro trilaterale in cui Bosnia e Serbia firmano l’accordo di pace e stabilità. E quando dopo il colpo di stato fallito chiede ai paesi balcanici di chiudere tutte le scuole guleniste, molti paesi lo accontentano con metodi repressivi al di fuori dello stato di diritto. Con il 2020, la Turchia è ancora in prima linea nella fornitura di presidi medici ai Balcani, negli investimenti in infrastrutture e nelle ingerenze sotto traccia nella politica; un ex gerarca militare apre un’Università della Difesa in Bosnia, finanziato dalla controllata locale di una banca turca, dove verranno addestrati sportivi ma anche uomini di sicurezza e intelligence di domani. Praticamente alle porte dell’Europa, sotto il nostro naso.
Le istituzioni europee sono riluttanti a prendere provvedimenti contro un alleato militare, con importanti basi NATO e una posizione geografica strategica anche per le rotte dei migranti. Le pretese del Sultano sono state ampiamente accolte, secondo una logica di male minore che potrebbe rivelarsi errata. Indubbiamente Erdoğan è uno stratega eccellente, in grado di trovare gli argomenti migliori per i diversi interlocutori. Riesce perfino a ergersi paladino della causa palestinese, forse tra gli ultimi rimasti al mondo, e al tempo stesso mantenere proficui rapporti commerciali con Israele, anche nel comparto militare.
Solo un paio di giorni fa, la Turchia è a brillata per assenza nell’elenco dei Paesi su cui la UE ha imposto sanzioni per la violazione di diritti umani, decidendo di allungare lo sguardo verso Myanmar e Cina ma evitando di notare le repressioni violente delle proteste che, da mesi ininterrottamente, si svolgono in Turchia. I turchi liberali contestano il costo economico e umano del ritorno all’impero, ma anche decisioni assurde in una società civile, come la sostituzione dei rettori universitari con personaggi vicini al regime, la messa al bando del partito filo-curdo e di associazioni di supporto alla causa LGBT, fino all’incredibile recesso dalla convenzione firmata proprio a Istanbul per la questione femminile.
Reuters riporta un memo interno del 20 marzo scorso, distribuito dalla UE agli Stati membri, in cui si percepisce un approccio molto aperto e la Turchia viene definita «partner importante, che dovrebbe diventare parte di un’unione doganale allargata con il blocco dei 27». Il memo inviterebbe inoltre a «rinforzare i nostri rapporti economici» pur con l’ammonizione che «se la Turchia non mostrasse volontà di muoversi in direzione di una collaborazione onesta con la UE, questo genererebbe conseguenze politiche ed economiche». Che bella notizia: almeno si sta pensando a sanzioni, anche se solo come leva per rapporti con la UE, ignorando di nuovo la situazione domestica al limite del tollerabile.
Accettare passivamente che il governo turco si muova senza controlli sia sul fronte domestico che su quello internazionale potrebbe essere una scelta di comodo ora, con conseguenze pesantissime negli anni futuri. Come ebbe a notare il politologo statunitense Samuel Huntington, «il mondo islamico e l’occidente sono reciprocamente esclusivi e pertanto destinati a un inevitabile conflitto». Considerato il punto a cui siamo arrivati, c’è solo da sperare che tale conflitto, probabilmente non più procrastinabile, si svolga soltanto sul piano economico.
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