Lo scorso 24 febbraio il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo (istruzioni operative impartite ad agenzie e ministeri) per valutare il grado di dipendenza dell’economia americana dalla “supply chain”, vale a dire dalle importazioni estere, in special modo dalla Cina. I settori interessati sono quelli elettronico e farmaceutico, delle batterie per veicoli elettrici e dei semiconduttori. Esattamente due degli argomenti che andiamo adesso a trattare.

Terre rare, tesori indispensabili

Cominciamo dalle terre rare, definizione di per sé ingannevole. Non ci troviamo, infatti, di fronte a terre che, oltretutto, non sarebbero neppure così rare. Il nome venne dato nel XIX secolo a una non omogenea massa di ossidi che vennero erroneamente denominati “terre” e che si trovavano in zone del pianeta ben delineate. In realtà si tratta di 17 elementi chimici, quasi tutti annoverati nel gruppo dei Lantanidi, divenuti di vitale importanza nella fabbricazione dei microchip.

A essi occorre infatti ricorrere per produrre smartphone, batterie per auto elettriche, turbine per impianti eolici, attrezzature militari da installare su aerei, sottomarini o carri armati, impianti guida per missili, droni e satelliti. Questi 17 elementi si trovano inglobati in rocce a varia profondità e richiedono e sforzi enormi e pari costi per liberarli, pulirli e renderli utilizzabili, senza contare i danni ambientali che provocano.

La Cina possiede circa l’80% di queste terre (in particolare nella Mongolia interna), mentre altri giacimenti importanti si trovano in Australia, BrasileVietnam, MyanmarStati Uniti (una sola miniera in California) e persino Groenlandia, tanto che alcuni anni fa l’ex Presidente Donald Trump propose di annettere il Paese agli USA, non certo per amore della popolazione Inuit ma proprio per la presenza di queste materie prime sotto la superficie ghiacciata. 

Perché sono tanto importanti? Perché senza la disponibilità di tali minerali, la tecnologia di un Paese rischia il collasso non potendo accedere alla produzione di una infinita serie di prodotti. Basti pensare che se in uno smartphone ne sono contenuti pochi grammi e in un normale SUV fino a circa 90 chilogrammi, in un aereo militare ne serve una mezza tonnellata e ben quattro in un moderno sottomarino.

La filiera cinese, quasi un monopolio

Gli Stati Uniti sono i massimi utilizzatori delle terre, importandone dalla Cina circa 90 mila tonnellate all’anno. Trump, quando applicò i dazi alle importazioni cinesi, si guardò bene dal tassare tale categoria, anche se Pechino minacciò, come ritorsione, di bloccarne l’esportazione, che però non si verificò, visto che avrebbe colpito prima di tutto le industrie cinesi che costruivano batterie, magneti, leghe e motori per conto di imprese americane. 

Ora però il problema sembra riproporsi, avendo i cinesi deciso di applicare una rigorosa pianificazione delle esportazioni, che risponde peraltro ad una logica indiscutibile. Dato il passaggio da una economia export oriented ad una volta a soddisfare i consumi interni e costituendo le auto elettriche e le energie rinnovabili due dei pilastri di questa politica, è probabile che la Cina farà fatica – anche volendolo – a soddisfare le enormi richieste provenienti dall’estero. 

Una mappa grafica raffigura i principali Paesi produttori e consumatori di terre rare: la Cina ne detiene l’80%.

Ma c’è di più: a differenza dell’industria petrolifera, dove abbiamo estrazione (concentrata in Medio Oriente), raffinazione (Occidente ed Asia) e consumo (Paesi industrializzati) che avvengono in tempi e aree differenti, qui il produttore cinese tende a unificare le diverse fasi della lavorazione, dalle rocce (dove si trovano gli ossidi), alla loro trasformazione in metalli fino alla creazione del prodotto finito, magneti e motori. 

La posizione cinese rischia pertanto di trasformarsi in una sorta di monopolio, cui gli altri Paesi non possono che opporre un’affannosa ricerca di produttori alternativi, come infatti sta avvenendo, con gli USA principali protagonisti di questa caccia. È di questi giorni la notizia di un possibile accordo in sede QUAD tra USA (che fornirebbero la tecnologia), Giappone (i capitali) e Australia (dove si trovano le miniere). D’altra parte ricorrere a minerali diversi dalle terre rare, quali cobalto (Repubblica del Congo) o litio (Sud America) non elimina il problema, visto che le imprese sfruttatrici sono quasi tutte in mano cinese. 

La corsa ai semiconduttori

Un altro settore di scontro sino – americano si verifica nel settore dei semiconduttori, quei piccoli quadratini di silicio, di pochi centimetri di lato, lavorati a rigature trasversali, tali da far assomigliare il semiconduttore a un biscotto wafer (così, infatti, vengono chiamati). Anche per questi wafer è sorta una formidabile richiesta negli ultimi anni, perché da essi dipendono i sensori, elementi indispensabili nell’Intelligenza artificiale e nel cosiddetto Internet delle cose

Ma anche una semplice auto elettrica richiede l’installazione di circa 3.000 semiconduttori, tanto che la produzione annua mondiale si aggira oggi sui mille miliardi di pezzi, che equivalgono – per rendere il dato più comprensibile – a 130 semiconduttori per ogni singolo abitante del pianeta. In questo momento il mercato è dominato da due società asiatiche: la taiwanese TSMC (Taiwanese Semiconductor Manufacturing Company), un gigante con un giro di affari di circa 450 miliardi di dollari annui, e la sud coreana Samsung. 

La domanda di semiconduttori è stata inoltre favorita negli ultimi tempi dalla pandemia, che ha fatto lievitare la richiesta di computer (per lo smart working), e di giochi, video e derivati dell’intelligenza artificiale per il tempo libero necessariamente trascorso in casa.  

Tutto ciò ha comportato una durissima selezione tra le società del settore (la Intel, ad esempio, è stata letteralmente spazzata via), e il potere è ora nelle mani principalmente di TSMC, grazie alle elevate prestazioni che sa offrire. Per citare un esempio concreto, nel processore Apple A 14 installato sull’iPhone 12, sono presenti ben 134 milioni di transistor per millimetro quadrato, tutti appartenenti alla cosiddetta generazione dei “5 nanometri“, vale a dire a chip della dimensione di 5 miliardesimi di metro. Questa sofisticatissima tecnologia è appannaggio delle sole compagnie citate in precedenza, che entro quest’anno dovrebbero lanciare anche la  generazione “3” (tre miliardesimi di metro). 

Taiwan è leader, ma la domanda supera l’offerta

Cosa significa tutto questo? Che per la prima volta in questo importantissimo settore sia gli Stati Uniti sia la Cina sono indietro, perché non hanno raggiunto la “expertise” taiwanese in grado di “saldare” questi milioni di transistor alla base in silicio del wafer. La TSMC per adesso si barcamena, nel senso che alle fabbriche già operanti in Cina da vari anni, ha aggiunto un investimento di 15 miliardi di dollari per aprire un nuovo stabilimento in USA, accogliendo così le pressanti richieste americane. 

“Il collo di bottiglia” determinato dall’incremento esponenziale della domanda rispetto all’offerta ha però già causato danni: da gennaio quasi tutte le più importanti fabbriche automobilistiche del mondo (dalla Volkswagen alla Ford, dalla Tesla alla General Motors) sono state costrette a ridurre la produzione per mancanza di semiconduttori. 

Una ragione in più per sottolineare l’importanza strategica della società taiwanese ma, allo stesso tempo, per spingere i concorrenti a sviluppare al massimo la ricerca di modelli alternativi, realizzabili anche con pratiche poco corrette (in particolare da parte cinese) quali la corruzione mirata, lo spionaggio industriale o l’attrazione dei cervelli verso il Continente. 

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