C’è tempesta nel mare d’Irlanda
La Brexit e la conseguente crisi economica in Irlanda del Nord stanno minando la pace che l'Accordo del Venerdì Santo aveva garantito per anni.
La Brexit e la conseguente crisi economica in Irlanda del Nord stanno minando la pace che l'Accordo del Venerdì Santo aveva garantito per anni.
Uno dei principi fondamentali per tutti i ferventi sostenitori dell’uscita del Regno Unito dalla UE è quello del “riprendere la sovranità dei confini”. Da 100 anni, sull’isola di smeraldo, 500 km di frontiera separano due Paesi, da quando cioè le sei contee dell’Ulster decisero di non voler far parte dello stato indipendente d’Irlanda bensì di sentirsi ancora parte del Regno britannico. Da qualche mese, con l’entrata in vigore di Brexit, esiste un nuovo confine e, per assurdo che possa sembrare, si trova in mezzo al mare.
Un compromesso molto all’inglese per risolvere il problema dei controlli doganali tra UK e UE: per evitare tensioni sulla terraferma, politicamente sensibile ai minimi cambiamenti, si è stabilito il “protocollo nordirlandese”, spostando il focus dei controlli doganali sul commercio tra la Gran Bretagna e la sua figlioccia nordirlandese. Per spostare merci intra-regno, ad esempio da Liverpool a Belfast, sono quindi necessarie dichiarazioni doganali, controlli e ispezioni tutte in linea con i requisiti europei.
Per spiegare ancora meglio, l’Irlanda del Nord rimane nel mercato unico e ne applica le normative, MA restando parte del territorio doganale inglese. Un pastrocchio che non piace agli unionisti, cioè i partiti leali alla corona: fin dal principio hanno protestato per gli accordi presi con la UE che, nella loro opinione, ritratterebbero un confine politico costato anni di guerra civile, come se il protocollo avesse creato una nuova barriera tra la regione e la Gran Bretagna, minando le fondamenta costituzionali dell’Unione. Con la UK come partner principale, l’Irlanda del Nord si trova svantaggiata anche sotto il profilo economico e le difficoltà, specie nel primo periodo, nel reperire merci hanno portato alle denunce social sui supermercati vuoti, divenuti triste simbolo della crisi e del senso di abbandono da parte della patria. Se sei un lealista, è evidente che puoi interpretare il protocollo come una mancanza di lealtà del governo centrale verso la periferia.
Lo scontento unionista è stato incanalato in una lettera inviata al premier Boris Johnson e al taoiseach (l’equivalente nel parlamentino nordirlandese) Micheàl Martin. Nella lettera, le organizzazioni paramilitari dell’Ulster (UVF, UDA e Red Hand Commando) “rinunciano all’accordo del Venerdì Santo”, cioè al patto con cui ebbe fine il periodo violento e di terrore dei Troubles. Pur chiedendo ai simpatizzanti che le proteste popolari avvengano in un clima “pacifico e democratico”, tengono a sottolineare che considerano il protocollo “una violazione delle salvaguardie fissate nell’accordo di Belfast (altro nome, meno cattolico, per lo stesso accordo) che protegge gli interessi di entrambe le comunità”.
L’accordo viene quindi sospeso unilateralmente “finché una modifica al protocollo non garantirà accesso incondizionato a merci e persone in tutto il Regno Unito”. Pesante la frase finale: “Non sottovalutate quanto è importante questo tema per tutta la famiglia unionista; se voi o la UE non siete pronti a onorare l’accordo in tutte le sue parti, allora sarete responsabili della sua distruzione permanente”.
Due metaforici minuti più tardi, Londra aveva già prorogato esenzioni e “controlli leggeri” sulle merci in passaggio sul mare d’Irlanda fino al 2023 e pare che il nuovo ministro per Brexit, il barone David Frost, voglia allentare ulteriormente i controlli, giustificandosi con temi economici: la Food and Drink Federation parla di un 45% di esportazioni in meno a partire dal 1 gennaio e simili crolli si sono avuti in tutti i comparti. Le esenzioni, concesse per un breve periodo di assestamento alle nuove norme, scadono a fine marzo e forse sarebbero state prorogate, anche senza la letterina a Babbo Natale “pacifica e democratica”. Ovviamente, questo attizza la UE, che accusa formalmente di violazione delle leggi internazionali, di nuovo, e minaccia azioni legali.
Un consigliere comunale unionista di Belfast, ha detto a The Guardian che “è troppo presto per sapere come interpretare la lettera”, dimostrando ancora una volta come in politica il significato di una frase vada spesso ricercato nel suo contrario. Idee già più nette esprime un deputato di centro quando minimizza: “Questo ritiro non ha conseguenze pratiche, l’accordo resta valido, sancito da un doppio referendum. Mi preoccupa di più che la voce di un’organizzazione terroristica possa diventare protagonista di un dibattito politico”. In effetti, la leader del DUP (partito democratico unionista) e altri politici hanno avuto contatti con i firmatari della lettera, subito accusati di legittimare i paramilitari. Al di là della retorica buonista, nel parlamentino dell’Ulster siedono – da entrambe le parti – partiti che promanano, trovano giustificazione e si fondano sui principi dei gruppi paramilitari che hanno preso parte attiva nei Troubles. Le armi sono state deposte, mai riconsegnate; l’ascia di guerra è sepolta, ma non tanto in profondità.
È un terreno infido quello su cui sono costretti a muoversi il premier Johnson e il responsabile dell’ufficio di gabinetto Michael Gove. Da un lato c’è l’Europa che pretende il rispetto totale degli accordi presi per i controlli doganali; dall’altro un confine labile in mezzo al mare che potrebbe far saltare gli equilibri mai del tutto stabilizzati di quello in terraferma. Ci sono gli esportatori che vogliono un nuovo accordo, gli importatori che non possono lasciar vuoti gli scaffali ma anche una Unione Europea che attende al varco le richieste di modifica per ottenere qualcos’altro in cambio. Gli indipendentisti irlandesi per ora restano a guardare, con i pop corn in grembo, lo sfacelo che ne viene ai cugini separati in casa, con un “te l’avevo detto” nel sorriso e una porta sempre aperta verso la riunificazione dell’isola in un unico stato libero.
C’è un grande murale – in vero stile nordirlandese – su un muro di Belfast che raffigura il faccione simpatico di Gove e la scritta: “Noi non dimentichiamo, noi non perdoniamo”. Brexit doveva essere una passeggiata d’aria fresca, uno stimolo per l’economia e un vantaggio per tutti. Si rivela sempre di più un accordo raffazzonato, pieno di buchi neri e di errori macroscopici. Come i lealisti graffitari, nessuno degli inglesi, così come degli europei, intende dimenticare.
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