Le ricostruzioni latitano, le testimonianze raramente collimano: fra rimozioni, reticenze e tracce erose dal tempo il colpo d’aria tarda e la foschia impedisce di discernere. Dopo 76 anni. I tedeschi li chiamavano banditi, ma in realtà erano quasi tutti ex militari (ufficiali, sottufficiali e soldati semplici) delle Forze Armate italiane, fuggiti dalle caserme l’8 settembre 1943. Anche per chi organizzava scioperi contro la macchina bellica, nelle fabbriche, scattava, se catturato, la deportazione.

Il Garda nelle mani dei nazisti

Questi primi nuclei di patrioti fecero parte in seguito delle cosiddette brigate, formazioni ufficialmente riconosciute anche da tutti gli Alleati (inglesi, americani e francesi). Quando cadevano nelle mani dei tedeschi, che avevano qui alcuni Comandi (a Bardolino, a Malcesine) venivano processati e condannati a morte. Il lago di Garda già nell’autunno del 1943 divenne il luogo preminente di soggiorno e di occupazione delle truppe tedesche. Le più belle ville del lago, in particolare quelle della riva bresciana, nel giro di due mesi divennero sede di tutti i grandi Comandi tedeschi: delle SS, della Gestapo, della Wermacht, della Marina.

Vi trovarono sede poi anche alcune Ambasciate riconosciute dalla Repubblica Sociale Italiana, fra cui quella del Giappone, e dal Comando della Guardia Nazionale Repubblicana e dal comando delle forze armate italiane repubblicane rette dal maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. Anche Villa Feltrinelli, a Gargnano, divenne residenza personale dei familiari di Benito Mussolini, mentre Claretta Petacci, la sua amante, si stabilì sulla riva opposta, più a Nord. Mussolini, in realtà, non amava il Garda (diceva che “non era né un mare né un fiume”), perciò chiese una nuova residenza: non più a Gargnano ma a Valeggio sul Mincio, a Villa Sigurtà.

A Colà il quartier generale di Rommel

A Villa dei Cedri, a Colà, c’era il quartier generale di Rommel. Poi a Lazise il comando della Luftwaffe in Italia: vi risiedeva il feldmaresciallo Wolfran von Richtofen, cugino del celebre Barone Rosso Manfred von Richtofen, il più famoso pilota della Prima Guerra Mondiale. C’erano poi lì attorno tutte le ville requisite, trasformate in ospedali militari, in convalescenziari, in luoghi di soggiorno e vacanza dei reduci dei fronti di guerra. In linea d’aria, dalla parte opposta a Bardolino, delle ville bresciane più famose non ce n’era una che non fosse stata requisita e occupata. E poi vi risiedeva il generale Karl Wolf, comandante generale delle SS in Italia. C’erano tanti, non solo dalla parte bresciana ma anche dalla parte veronese, da Malcesine a Peschiera del Garda. Il generale Wilhelm Harster, comandante della polizia di Sicurezza e uomo di Heinrich Himmler in Italia, era invece in città, a Verona.

Erwin Rommel, foto da Bundesarchiv

A Colà di Lazise, circa 15 km da Verona, nell’autunno del 1943 si consumò uno dei più grandi drammi della storia dell’esercito italiano. In queste stanze un feld-maresciallo celeberrimo, reduce dall’Africa e chiamato la Volpe del Deserto, Rommel, al comando di un gruppo di armate si adoperò per la totale eliminazione dell’esercito italiano.

Fu in queste stanze che Rommel, per ordine di Hitler, fece catturare tutte le forze italiane che potevano ricadere sotto la sua giurisdizione, la quale si estendeva fino a 30 chilometri dal fronte, che allora era nel Meridione.

Da qui mezzo milione tra ufficiali, sottufficiali e soldati italiani furono intrappolati, furono caricati sulle tradotte in sosta a Verona, Padova, Piacenza, Milano, Torino ed avviati verso i lager tedeschi, nella prigionia che non avrebbero più abbandonato all’infuori dei pochi che aderirono alla Repubblica di Salò.

Quei soldati italiani mandati nei lager

Nato nel 1891, il 15 novembre 1943 a Villa dei Cedri festeggiò il compimento del suo 52esimo compleanno, l’ultimo della sua drammatica vita. Ai festeggiamenti parteciparono centinaia di ospiti: decine di generali tedeschi, l’ammiraglio Ruge – che era un suo grande amico ed era comandante della flotta tedesca in Italia -, gerarchi della Repubblica Sociale Italiana e via dicendo. Fra gli altri c’erano anche Mussolini, il generale Wolf e il generale Graziani, capo della difesa della RSI. C’era una rinomata orchestra e ci fu anche una sontuosa cena, durante la quale fu bevuto molto vino veronese, Valpolicella e Bardolino. A Villa dei Cedri a quel tempo operavano e lavoravano circa seicento persone.

Esiste un documento, datato 19 settembre 1943, e firmato a Cola’ di Lazise da Rommel. È indirizzato a Berlino e segnala l’avvenuta cattura (fino allora, siamo soltanto al 19 settembre, 11 giorni dopo l’annuncio dell’armistizio) di 82 generali, 13.000 ufficiali, e 402.000 soldati italiani, 183.000 dei quali già tradotti in campi di concentramento tedeschi. Questo il dramma dell’Italia, il dramma dell’8 settembre al quale hanno dedicato moltissimi libri, tra i primi Ruggero Zangrandi, perché nella storia della Seconda Guerra Mondiale quello fu l’unico caso di un intero esercito catturato in blocco, disarmato e messo “al sicuro” nei campi di prigionia.

Le giovani in lotta partigiana della Brigata Avesani

In questo scenario difficile, con alle spalle la città all’epoca più “germanizzata” d’Italia, Verona, operavano le formazioni partigiane. Fra queste la Brigata Avesani, che ha raccolto incredibili storie di donne combattenti, che si unirono alla resistenza. Anche dalla città fascista di Castelnuovo del Garda. Ne ricordiamo qui solo alcune, ma sono tantissime le ragazze che in giovane e giovanissima età si unirono alla lotta per la libertà.

Un particolare del cippo posto sul Monte Baldo, alla cresta di Naole, foto dalla pagina Facebook di Anpi Verona

Angelina Caliari, nata il 19 giugno 1897 a Castelnuovo del Garda (VR) e figlia di Giovanni e di Marina Mancini, ad esempio, venne inquadrata nella Brigata Avesani dal luglio del ’44 all’aprile del ’45 e fu operativa nella zona di Verona. Arrestata nel gennaio 1944 a Castelnuovo del Garda ed imprigionata presso la caserma delle SS di Verona, venne in seguito deportata al campo di concentramento di Peschiera del Garda dove vi rimase fino alla liberazione.

Bruna Fontana, nata il 1° settembre 1921 a Castelnuovo (VR) e figlia di Giuseppe e di Alice Bendazzoli, venne inquadrata nella Brigata Avesani – Battaglione Gino e arrestata dai nazisti il primo giorno dell’anno del 1945 e condotta successivamente al campo di concentramento di Bolzano con la matricola n° 10164. Qui vi rimase fino alla liberazione.

Gisella Nicoli, nata il 12 ottobre del 1914 a Castelnuovo (VR), figlia di Giuseppe e inquadrata anche lei nella Brigata Avesani. Adalgisia Vassanelli, nata l’11 aprile 1896 a Bussolengo (VR), figlia di Francesco e di Anela Piccoli, inquadrata nella Brigata Avesani e operativa nella zona di Verona con incarichi di staffetta e di collegamento con i partigiani.

Lina Zoccatelli, nata il 7 dicembre 1920 a Castelnuovo (VR), figlia di Ettore e di Ermelinda Delfini. Riconosciutale la qualifica di “partigiano combattente” dalla Commissione Regionale Triveneta, per l’accertamento delle qualifiche partigiane del Ministero Assistenza, inquadrata nella Brigata Avesani – Battaglione Gino, arrestata dalle SS tedesche nel gennaio del ’45 ad Adria e condotta a Verona, prima, e a Peschiera del Garda, poi, dove rimase fino alla liberazione.

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