Malcolm&Marie: cosa vuol dire “film Netflix”
Due ottime prove attoriali incastonate in un lavoro fin troppo studiato a tavolino. Scritto e diretto da Sam Levinson, è il primo movie nato in una Hollywood in piena pandemia.
Due ottime prove attoriali incastonate in un lavoro fin troppo studiato a tavolino. Scritto e diretto da Sam Levinson, è il primo movie nato in una Hollywood in piena pandemia.
Si parla molto spesso di come i “film Netflix” non siano mai all’altezza dei “veri film”, quelli che escono al cinema. È parte della natura umana il bisogno di creare schieramenti – Beatles o Rolling Stones? Mamma o papà o Pippo Baudo? – ma questa battaglia pro o contro Netflix non tiene conto di un dato importante: i film Netflix non esistono davvero. O meglio, stanno iniziando a esistere in quanto, pian piano, Netflix è diventato uno studio a tutti gli effetti. Ma più spesso compra cose già sviluppate, come nel caso di Malcolm & Marie.
Il film, scritto e diretto da Sam Levinson (figlio di Barry e creatore di Euphoria), è già passato alla storia in quanto primo film di Hollywood a essere stato interamente scritto, finanziato e girato durante la pandemia di Covid-19. Le riprese si sono svolte tra giugno e luglio 2020 in una villa a Carmel-by-the-Sea, cittadina costiera californiana famosa per aver avuto come sindaco Clint Eastwood. La produzione ha utilizzato rigorose misure anti-Covid e una troupe limitata, per lavorare in sicurezza e in fretta. Il progetto è stato concepito proprio per essere realizzato durante la pandemia: i protagonisti sono solo due, e si chiamano, spoiler, Malcolm e Marie.
Il primo è un regista, la seconda la sua molto più giovane compagna e musa. Sono di ritorno dalla première del nuovo film di Malcolm (John David Washington), accolto favorevolmente dalla critica. Ma c’è un problema: durante il discorso di ringraziamento, Malcolm si è scordato di ringraziare Marie (Zendaya). E questo nonostante la trama del film e la sua protagonista siano ispirati proprio alle vicende di Marie, ex tossica. Ciò innesca un litigio che proseguirà per tutto il film.
Malcolm & Marie è tipicamente un film di scrittura, e non è un caso che sia stato realizzato da un autore televisivo. Non si tratta di un discorso classista, il-cinema-è-meglio-della-TV, ma di un dato di fatto: le serie sono molto più impostate sulla scrittura, per loro stessa natura. Hanno molto più tempo per sviscerare i personaggi, mentre un film deve affidarsi all’iconografia e alla sintesi visiva. In un certo senso, Malcolm & Marie potrebbe essere una di quelle puntate delle serie TV moderne in cui si opera una divagazione e ci si concentra su pochi personaggi in un setting ristretto. Sto guardando te, mosca di Breaking Bad.
Non che Levinson trascuri il reparto visivo, sia chiaro. Il film è girato in uno stiloso bianco e nero, in 35mm, per dare al tutto un feeling da cinema-verità, evocando New Hollywood e Nouvelle Vague. Ma, come si diceva, sono scrittura e recitazione a dominare. Si parla molto, in Malcolm & Marie. Si urla altrettanto, si approfondiscono temi, punti di discussione, in un incessante dialogo che mette in luce due interpreti al massimo della forma.
Da una parte abbiamo Zendaya, forte del successo della saga di Spider-Man e delle lodi della critica ricevute per Euphoria. Dall’altra John David Washington, figlio di Denzel, in grande ascesa dopo BlacKkKlansman e Tenet. Sul loro fascino e carisma si regge il film, e i due non deludono. Non c’è alcun dubbio che siano chi dicono di essere: due figure dello showbiz, due afro-americani che “ce l’hanno fatta” in un’industria dominata dai bianchi.
È grazie proprio alla loro intesa che il film, dopo tutto, funziona. È grazie a loro se questo evidente tentativo di cinema d’autore fin troppo costruito a tavolino – il bianco e nero, la pellicola, i grandi temi – risulta comunque piacevole. È grazie a loro se questi due membri del jet-set non risultano immediatamente antipatici con tutti i loro dubbi e traumi espressi all’interno di una bellissima villa a Hollywood. Ma non facciamoci illusioni: c’è molta maestria nel confezionare un prodotto che punta alle cose giuste e sa come ammaliare il target giusto. Finita la visione, resta abbastanza poco.
Lo spunto più interessante, comunque, è la riflessione su quanto i bias sociali influenzino la lettura di un’opera d’arte. Malcolm passa gran parte del film a prendersela con una critica (bianca) che ha lodato il suo film, facendone una lettura politica incentrata sul razzismo sistemico. Secondo lui, che quel film lo ha scritto e diretto, non c’era affatto questa intenzione. Non tutti i film diretti da un nero devono parlare di razzismo sistemico! Il fatto che queste cose siano state scritte da un regista bianco, figlio di un famoso regista bianco, crea però un cortocircuito non intenzionale: è davvero possibile attaccare il privilegio quando chi lo fa è chiaramente un privilegiato?
La risposta deve essere per forza sì. Chiunque può riflettere sulla sua posizione e usare l’arte per metterla in discussione. È giusto e importante. Eppure, se il risultato è un film così ostentatamente “costruito”, un paio di domande su buone intenzioni vs. paraculaggine tocca farsele.