Nel nuovo governo il Ministero dell’Ambiente verrà riorganizzato come Ministero della Transizione Ecologica. Non ci è dato conoscere le reali intenzioni del Movimento 5stelle nel proporre il cambio di nome né quelle di Draghi nell’accettarlo, lo sapremo solo man mano che l’attività di governo, con azioni specifiche, lo riempirà di significato.  

Tuttavia le definizioni non sono mai neutre, nascondono sempre un significato e sottendono l’uso che di quell’oggetto si vuole fare, a volte evocano e promuovono cambiamenti reali. Questo caso non farà certo eccezione.

Il Ministero dell’Ambiente entra nella nostra storia nel 1983 con il primo governo Craxi e un giovane Alfredo Biondi come ministro senza portafoglio;  bisogna aspettare il 1986 per l’istituzione di una vera e propria struttura ministeriale con funzioni specifiche e una propria caratterizzazione. Una svolta importante e significativa che non è avvenuta né facilmente né per caso, perché ambiente era una parola che si stava imponendo ma non ancora oggetto di seria considerazione politica.

All’inizio degli anni 70 il nostro Paese aveva raggiunto l’apice di un boom economico iniziato alla fine della seconda guerra mondiale che, in soli 20 anni,  aveva trasformato radicalmente la vita e l’economia dell’Italia: da prevalentemente rurale e agricola a urbana e industriale.

La crisi economica che ne è seguita, ricordiamo l’alta inflazione di quel periodo e le domeniche a piedi, ha stimolato una prima riflessione sulla sostenibilità del livello di benessere raggiunto ma ha anche permesso una maggiore presa di coscienza del disastro ambientale procurato.

Avvelenamento dei fiumi e dell’aria, consumo indiscriminato di suolo agricolo, spreco di risorse e dispersione di rifiuti, cementificazione selvaggia e periferie invivibili. Basti pensare all’incidente di Seveso, al disastro dell’Eternit  e che, fino al 1976, non esisteva neppure una regolazione per l’immissione nei corsi d’acqua degli scarichi industriali e civili.

In quel periodo si è rafforzato un movimento di opinione in “difesa dell’ambiente” che tendeva giustamente a regolare le attività produttive.

Un movimento dalle tante anime, ricco di personalità alle quali dobbiamo molto per le riflessioni e le coraggiose iniziative. Ricordiamo la ricerca merceologica e delle risorse naturali di Giorgio Nebbia, il “Rapporto sui limiti dello sviluppo” di Aurelio Peccei, l’impegno di Elena Croce che nel 1956 fonda Italia Nostra per diffondere la cultura della difesa paesaggistica e ambientale, le inchieste di Antonio Cederna sull’abuso sul patrimonio naturale e ambientale italiano, ma soprattutto lo “spirito ecologista socialmente desiderabile” di Alexander Langer.

Nel 1966 è stata fondata la sezione italiana del WWF, Legambiente nasce nel 1980 come emanazione dell’ARCI e Greenpeace Italia arriva nel 1986 in concomitanza con il referendum sul nucleare.

Inizialmente le organizzazioni ambientaliste hanno avuto un approccio protezionistico ed educativo, ma successivamente hanno assunto un carattere di lotta e contestazione sociale. Si è man mano rafforzata una contrapposizione fra gli “ambientalisti” che dicono no e i difensori dello sviluppo che sostengono il  sì al fare, come se fosse sempre necessario raggiungere insoddisfacenti compromessi fra protezione dell’ambiente e benessere delle persone.

Un Ministero dell’Ambiente separato dai ministeri dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture è di fatto la presa d’atto istituzionale di questa supposta difficile conciliabilità.

Ora, all’alba del 21esimo secolo la percezione è cambiata radicalmente.

È cresciuta la consapevolezza che ci troviamo di fronte a un’emergenza climatica e ambientale, da noi generata, che può ridurre il nostro benessere e mettere a rischio le future generazioni. Siamo così improvvidi da distruggere con le nostre mani l’ecosistema che ci garantisce la sopravvivenza. Questi sono i messaggi anche dei nuovi movimenti come ad esempio Friday for Future di Greta Thunberg, di Extinction Rebellion, e le esortazioni di Papa Francesco.

Si è sempre più convinti che occorre operare una transizione verso un sistema di produzione e consumo che ci metta in armonia con la natura, per progettare una relazione collaborativa e sinergica con l’ecosistema che ci circonda.

L’Europa ne è convinta: non più ambiente e sviluppo separati.

Questo è ben presente nei programmi New Green Deal, Next Generation EU, Farm to Fork, Renovation Wave elaborati dalla Comunità Europea e recepiti dal nostro governo alla  cui implementazione sono dedicati 209 miliardi di Euro per il nostro Paese.

Il Ministero della Transizione Ecologica, con competenze allargate, per ora, all’energia e alla gestione del Recovery Fund, è quindi un primo passo per gestire più efficacemente il passaggio (Transizione) dal modello di società attuale basato sui combustibili fossili e la distruzione degli ecosistemi, a una società più “amica” della natura e dell’uomo (Ecologica).

Il nuovo nome indica un cambio di paradigma radicale che non tutti hanno compreso, forse nemmeno i politici che l’hanno accettato.

Non sarà un passaggio semplice da attuare, non mancheranno resistenze e contraddizioni. Già ora dobbiamo notare che a capo del ministero è stato chiamato  Roberto Cingolani, un fisico e non un ecologo e che i Ministeri dello Sviluppo Economico con Giancarlo Giorgetti e delle Infrastrutture con Enrico Giovannini  rimangono con responsabilità separate.

Ma la strada sembra tracciata e anche il nuovo nome “aiuta”.

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