Il Presidente Trump prendeva decisioni autonome e “muscolose”. Il successore le prenderà in un quadro di concertazione e  con la dovuta (si spera) ponderazione. Ma  per essere parte del gioco serviranno fatti e non parole: l’elettore americano infatti si aspetta che chi chiede il supporto USA debba in qualche modo contribuire. Sul bus non è più possibile viaggiare gratis. Le prime settimane dall’insediamento vedranno Biden impegnato sul fronte interno: in queste ore sta firmando numerosi “ordini esecutivi” con i quali modificare varie decisioni prese da Trump, dalla cancellazione dei “travel ban” per cittadini di Paesi musulmani al rientro nell’Accordo sul clima di Parigi, dalla riunione delle famiglie separate al momento dell’ingresso illegale nel Paese alla cittadinanza da estendere a chi entrò da bambino illegalmente negli Stati Uniti fino alla moratoria sugli sfratti e sul pagamento dei debiti universitari.  Si attende inoltre  l’approvazione da parte del Congresso di  un piano economico di quasi 2000 miliardi di Dollari per aiutare le persone in difficoltà e consentire il rilancio all’economia (quest’anno il PIL USA scenderà di circa il 4%). Ma altri provvedimenti attendono dalla riforma (parziale) sanitaria a quella fiscale, da quella giudiziaria a quella scolastica, senza parlare delle infrastrutture e del controllo delle forze di Polizia. Ma soprattutto dovrà cercare di riunire il Paese: Biden, con la sua politica moderata, è l’unico in grado di farlo. Ma non sarà facile, visto che da un recente sondaggio il 40% degli americani ritiene legittimo l’uso della violenza per rispondere ad una violenza altrui.

Passiamo ora alla politica estera: in un articolo su Foreign Affairs il nuovo Presidente ha delineato le linee fondamentali di politica estera della sua Amministrazione: in sintesi, ridare all’America la leadership mondiale, assicurare il rafforzamento dei sistemi democratici (attraverso un apposito Summit), promuovere lo sviluppo economico mondiale, contrastare le minacce espansionistiche russe e le opache pratiche dei sistemi tecnologici cinesi.

Partiamo dai rapporti con la Cina, che resteranno problematici, anche se Biden dovrà “selezionare” quali prodotti dovranno continuare ad essere sottoposti ai dazi. Le statistiche dimostrano, infatti, che nonostante i 2/3 ne siano colpiti, la bilancia commerciale non muta in maniera significativa: gli USA esportano un quinto di quanto importano e la flessione che si registrerà nei dati ufficiali del 2020 sarà dovuta agli effetti della pandemia, non al regime daziario. Resteranno comunque le restrizioni applicate alle compagnie tecnologiche di Pechino, perché se Biden intende ridare all’America un ruolo di leadership mondiale non può prescindere dal dominio tecnologico, al quale Pechino non sembra disposta a rinunciare. Si potrà quindi realizzare un “decoupling” (separazione) tra un’area occidentale sotto controllo USA e una orientale in mano cinese. Più facile a dirsi che a farsi, perché gli intrecci sono tali che il loro scioglimento potrebbe colpire i giganti del web americano poco disposti a rinunciare ai profitti, cresciuti a dismisura durante la pandemia. Bisognerà poi tener conto che nel 2021 il PIL cinese aumenterà tra il 7 – 8%, ben superiore a quello americano. E se il “ripiegamento su se stessi” dovesse sviluppare una capacità tecnologica “autarchica” cinese in grado di mettere in forte difficoltà gli USA?

Il Presidente  ha in progetto di creare una “Alleanza delle Democrazie“ per contrastare le autocrazie avversarie, Cina e Russia in primis: una sorta di “tecno – democrazia”, area in cui si potenziano le libertà del cittadino contrapposta ad un “tecno- autoritarismo” o “tecno – nazionalismo” che invece le riduce, soprattutto là dove il controllo è affidato agli organi di Polizia. In questo caso Biden rischia però di accentuare la promozione dei cosiddetti beni “immateriali” quali la difesa dei diritti umani, la protezione delle minoranze ecc. che, se garantiscono un largo appoggio mediatico, non sortiscono effetti tangibili sugli Stati autoritari. Come non li hanno avuti le tanto decantate sanzioni trumpiane, che avrebbero dovuto servire a far mutare atteggiamento ai regimi colpiti. La Russia è ancora lì come ancora resiste il regime degli Ayatollah, perché questi Paesi sono in grado di “nazionalizzare” la resistenza alla minaccia esterna e controllare, anche con la forza, ogni forma di dissenso. A dir la verità neppure le società USA sembrano prendere sul serio tali sanzioni, visto che la Boeing ha recentemente costruito in Siberia una seconda fabbrica per la lavorazione di acciai al titanio che servono per i suoi aerei….

Portare il discorso sulla tutela dei diritti umani (Ucraina, Crimea, gli oppositori a Putin come Nawalny per la Russia, Hong Kong e il trattamento delle minoranze uighure e tibetane per la Cina) non farà che rendere più tesi i rapporti tra le tre Superpotenze, ma non cambierà la situazione sul terreno. I cinesi, oltre alla “via della Seta”, versione marittima e ferroviaria, hanno dalla loro anche quella sanitaria, grazie ai vantaggi, reali o vantati, della lotta al virus. Essi si sono infiltrati in maniera ormai stabile in Africa, Medio Oriente (Iran e Irak soprattutto) ed Europa orientale, Paesi nei quali la costruzione di infrastrutture (strade, ferrovie, porti, università) prelude al potenziamento degli scambi commerciali, ma dove opera anche l’acquisto di terre fertili (per il proprio bisogno di cibo) cui si associa l’importazione di materie prime (manganese, coltran, petrolio). Stesso ragionamento vale per la Russia, presente in Siria, Libia, Egitto e in numerose altre parti del Continente africano, con vendita di attrezzature militari e reattori nucleari in cambio, anche qui, di materie prime e fonti energetiche. La Russia non è solo un forziere di risorse energetiche; ha anche un apparato militare di tutto rilievo, dall’armamento atomico ai reparti specializzati, un controllo statale sull’economia ma soprattutto una capacità “cibernetica” di penetrare i sistemi computerizzati stranieri, fatto che preoccupa gli USA per i riflessi che potrebbero verificarsi in caso di azione militari .

Iran: l’amministrazione Trump ha lasciato sul terreno due cadaveri eccellenti, il generale Soleymani e il fisico nucleare Fahrizadeh, anche se una partecipazione israelo – americana all’agguato contro quest’ultimo non è provata, ma neppure da escludere. Se Biden è intenzionato a rientrare nell’accordo sul nucleare, dovrà tener conto che l’Iran alzerà il prezzo, corroborato tra l’altro dalla mancata ritorsione ai due omicidi. Se pensiamo che nell’area dall’Afghanistan al Libano, sono una quindicina le milizie in qualche modo collegate agli iraniani, per un totale di almeno 100.000 combattenti, un attacco a persone, beni o interessi americani sarebbe stato abbastanza agevole da realizzare. Biden dovrà quindi cedere sulle sanzioni, togliendo quelle destinate alle cure umanitarie (medicine, vaccini ecc.) e lasciandone altre più “selezionate” (ma non va dimenticato che  nonostante le sanzioni Teheran esporta quotidianamente dai 400 ai 700.000 barili di petrolio ). Quest’anno in Iran si terranno le elezioni Presidenziali ed è pressoché certa l’elezione di un conservatore, se non di un “falco”: altra variante che potrebbe rendere difficile il dialogo.

Sempre in Medio Oriente, Trump con gli “Accordi di Abramo” è riuscito a far riavvicinare a Tel Aviv un certo numero di Paesi arabi, un tempo ostili ad Israele, in cambio di fumose promesse di un arresto degli insediamenti ebraici nei Territori Occupati. La realtà è che la molla che ha favorito le intese è data dal pericolo iraniano, cui si è ora aggiunto l’espansionismo a 360 gradi della Turchia, infiltratasi nei Balcani, in Nord Africa, in Siria, nelle Repubbliche ex sovietiche del Centro Asia, nel Caucaso (Nagorno – Karabagh) e nel Corno d’Africa (Sudan e Somalia). Anche qui il Presidente dovrà cercare di capire se Ankara sia ancora un affidabile membro della NATO o giochi come battitore libero, che, nonostante i molteplici e gravosi impegni, riesce a far combaciare una struttura da media potenza con le ambizioni globali dell’antico Impero Ottomano.

Europa: è molto probabile una convergenza su temi e iniziative concrete nel campo della difesa dell’ambiente, del clima, degli investimenti green (punti di forza della  Commissione UE) oltreché nella difesa dei diritti umani.

Ma, approfondendo il discorso sull’Europa, emergono quei fattori “materiali “ che rendono complesso il gioco. Che tipo di Europa si troverà di fronte Biden? Quella a trazione franco – tedesca, ma in parte anche sovranista, antibrussellese o latina. Una Europa che, oltre ad essere stata scossa dalla pandemia e dalla tormentata uscita della Gran Bretagna, vede il ritiro della Cancelliera Merkel con il suo erede, Armin Laschet, che, pur dichiarandosi “fedelissimo” di Angela, deve provare di avere quelle straordinarie doti di diplomazia, pragmatismo e capacità di parlare alla gente che hanno caratterizzato la ex Regina d’Europa (ricordiamo che la prima scelta della Cancelliera Annegrete Kurren Karrenbauer fu un totale fallimento).

La Germania resta un alleato “difficile” per il Presidente USA, perché, oltre ad essere ogni tanto percorsa da pulsioni neutralistiche, ha rivolto due “schiaffi” pesanti a Washington: l’avvio a conclusione, con capitali esclusivamente russi, del raddoppio del gasdotto “Nord stream 2” che porterà direttamente il gas in Germania, circuitando Polonia e Ucraina (alla faccia delle sanzioni che sono sostenute apertamente dal Governo tedesco, ma non quando si tratta di iniziative definite….. “puramente commerciali”) e l’accordo commerciale UE – Cina, fortemente voluto da Berlino ed operativo soprattutto per quanto riguarda gli investimenti, che avvia una collaborazione di cui gli americani avrebbero fatto volentieri a meno. Tanto più che in concomitanza la Mercedes costruirà una nuova fabbrica in Cina. Circa le minacce russo – cinesi che graverebbero sull’Europa é singolare la posizione USA che pretende di difendere la segretezza dei dati informatici, messa in pericolo dalla rete G5 Huawei ZTE, notoriamente (!) sotto il controllo delle Autorità di Pechino, nonché la libertà di approvvigionamento energetico, insidiata dall’eccessiva presenza del gas russo. La realtà è però diversa: tutti sanno che gli USA controllano attraverso le GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) la quasi totalità delle 420 linee di cavi sottomarini (1.2 milioni di km) su cui passano miliardi di dati che il Pentagono, volendolo, è sempre in grado di controllare;  mentre l’ostracismo al gas russo deriva dalla volontà di Washington di vendere il proprio gas liquefatto (LNG) ma ad un prezzo molto superiore a quello di Mosca.

Il posto di leader europeo, lasciato libero dalla Cancelliera, mira ad essere occupato dal Presidente  francese Macron, ma la cui rotta di collisione con gli USA è nota. A parte le sanzioni americane su prodotti francesi (ma anche italiani), pesano le critiche rivolte alla NATO e le continue esortazioni agli altri partner UE a creare un forza di difesa autonoma europea (senza quindi il concorso americano) naturalmente sotto il controllo francese. Non sarà facile trovare mediazioni funzionali ai reciproci interessi.

E l’Italia? Qui il discorso si potrebbe rovesciare: cosa ha da offrire Roma a Washington? Ben poco purtroppo, a parte la lontana origine messinese del bisnonno della nuova First Lady. La pandemia, la crisi economica, i contrasti tra Amministrazione centrale e Regioni, la debolezza dell’esecutivo e le continue tensioni interne al Governo non hanno permesso all’Italia di elaborare una seria politica estera, che vada al di là delle banali affermazioni di principio sul mantenimento della pace, sulla sicurezza, sulla cooperazione reciproca e via dicendo.  L’unica iniziativa di rilievo, il Memorandum con la Cina del 2019 per una serie di collaborazioni anche in campo tecnologico, ha spinto Washington a esercitare su di noi tante e tali pressioni da costringerci a rinunciare. A nostra consolazione la circostanza che anche altri Paesi hanno fatto o stanno facendo marcia indietro (Gran Bretagna, Germania, Canada).

Non possiamo mettere sul terreno significative presenze né nei Balcani, dove si sono nel frattempo insediati Turchia, Germania e Cina, né in Libia, dove il nostro noioso insistere sulla necessità di una soluzione politica non ha portato a nessun risultato. Tranne quello di essere diventati comprimari di scena ed esserci “alleati” di fatto con la Turchia, vale a dire con le milizie islamiche, togliendoci così ogni margine di effettiva mediazione diplomatica. Ancor più preoccupante il fatto che il legame con la Turchia è diventato un “debito”, visto che dobbiamo ai servizi segreti turchi la liberazione di Silvia Romano. L’ambiguità della nostra posizione verso l’Egitto (condannato ad alta voce per il caso Regeni, ma cui vendiamo fregate di ultima generazione, prestando pure i soldi per… pagarcele), costituisce un caso emblematico della confusione che regna nella nostra politica estera.