La consapevolezza di avere un pensiero e un’attività mentale autonoma, separata da quella delle altre persone, si acquisisce a partire dall’infanzia ed è fondamentale per lo sviluppo emotivo e di un senso di identità, permettendo di comprendere parte del comportamento umano. Valerio Vivenza psichiatra, psicoterapeuta lavora presso il dipartimento di Neuroscienze AOUI Verona. Sono andata a cercare da Valerio un incontro che narrasse di affetto, emozioni, pensiero, comportamento, attaccamento e della loro distorsione; mi ha dato la possibilità di approfondire  alcune tematiche importanti per lo sviluppo della personalità. Qualche tempo fa ho visto il film Inside out, dove, a causa di un cambiamento nella vita della piccola protagonista, Riley, si viene catapultati non tanto nel luogo fisico della sua mente ma nel suo animo. Riley non si sente capita dalla madre e comincia a non controllare più le proprie emozioni. Questo crea disagio e confusione nella “cabina di controllo” nella mente di Riley. 

A parere mio questo film è riuscito ad avvicinarsi molto bene alle emozioni e alla loro importanza nella vita di tutti i giorni; mette in evidenza, nello svolgersi della storia, quanto sia importante una relazione affettiva “sufficientemente buona” nel traghettare le emozioni verso una loro espressione costruttiva e quindi alleata delle nostre intenzioni.  Questo film esprime molto bene il tema della mentalizzaizone, quel processo psichico che, come lo hanno definito  Peter Fonagy e Antony Bateman, indica un’attività mentale che porta a comprendere i comportamenti propri ed altrui come il risultato di stati mentali ed intenzionali, e cioè appunto come il risultato di desideri, credenze, aspettative, bisogni, obiettivi e sentimenti

Tenere a mente la mente ricordandoci che il nostro modo di rapportarci con il mondo è imprescindibile dalla nostra storia personale e dalla nostra unicità e irripetibilità. Mi sapresti dire Valerio quali sono le dinamiche psichiche della mentalizzazione e perché è così importante nello sviluppo di una persona? 

«La mentalizzazione ci permette in parte di capire quali sono i nostri comportamenti e i comportamenti degli altri e di pensare che il nostro comportamento e quello degli altri sono  legati a delle intenzioni. In breve ci aiuta a capire le nostre e altrui intenzioni. Generalmente è implicita (intuitiva, procedurale, automatica e inconscia) nel senso che noi naturalmente tendiamo a mentalizzare senza rendercene conto. Per esempio, nel traffico mentalizziamo perché cerchiamo di capire cosa sta facendo quello davanti a noi o quello dietro, senza che ce ne rendiamo conto. Sembrerebbe inutile eppure tale processo è fondamentale per non fare incidenti. Ce ne rendiamo conto quando qualcuno per esempio ci fa un torto o quando, per un qualsiasi motivo, entriamo in conflitto.  In questo caso la mentalizzazione diventa esplicita (iniziamo a ragionare sugli stati mentali nostri e altrui; è conscia, legata al linguaggio verbale, tende ad assumere il carattere di un dialogo interno). In genere si apprende sin dalle prime esperienze di vita (in famiglia, con gli amici, a scuola), ed è un processo che prosegue tutta la vita mediante l’accesso alla nostra cultura. Nei conflitti come in tutte le situazioni complesse il mentalizzare implicito non è sufficiente, abbiamo bisogno di ragionare e portare in parole quello che ci sta capitando e a volte ci riusciamo altre volte no; cerchiamo di capire, se tale tentativo fallisce tendiamo ad agire di impulso, come quando ci arrabbiamo, senza controllo su ciò che facciamo e lo scopo per cui lo facciamo. In altri casi, quando qualcosa non funziona tale capacità viene distorta e si sviluppano atteggiamenti solo apparentemente mentalizzanti, in cui tendiamo semplicemente a imitarla, in termine tecnico si parla di pseudomentalizzazione. Questo processo quindi, ha conseguenze non secondarie sul nostro essere nel mondo: è ciò che guida e spiega le risposte differenziali che ognuno di noi assume nell’interagire con le altre persone e, al contempo, è ciò che garantisce una coerenza alle nostre azioni.»

Come si sviluppa questa capacità?

«Nel rapporto tra genitore e bambino ci sono delle condizioni che permettono al bambino di far sviluppare la capacità di mentalizzare. Tra tutte queste quella più importante è la possibilità per il bambino di sperimentare con il genitore un rapporto che gli consenta di riconoscere le proprie emozioni e di dare loro un senso. Perché ci possa essere questo rapporto, il genitore deve avere alcune accortezze. Per esempio, secondo l’interpretazione di Fonagy, pensare che il bambino in tutte le sue manifestazioni sia guidato da delle intenzioni. Se il genitore ha la sufficiente  tranquillità di comprendere le azioni del bambino, dando ad esse risposte accurate (adeguate alla situazione) e contingenti (date nel momento giusto) si sviluppa quello che viene chiamato un attaccamento sicuro (oppure anche insicuro) ma non certo disorganizzato.»

Cos’è l’attaccamento?

«Secondo Bowlby, non è altro che il bisogno che il bambino ha nei primi mesi di vita di dover tenere i genitori vicini a sé, ad una distanza sufficientemente vicina da potergli permettere di sentirsi sicuro. Bowlby lo chiama istinto perché lo paragona per importanza a quello di nutrirsi e di fare all’amore. Il bambino è molto più dipendente rispetto gli altri animali, ha bisogno di tenere l’adulto più vicino e la maniera adeguata dell’adulto di rispondere è di riuscire a dare questa sicurezza, offrendogli vicinanza che vuol dire far sviluppare una dipendenza funzionale al naturale processo di crescita in modo tale che il bambino si sentirà sicuro di andare ad esplorare il mondo sapendo di poter tornare indietro al genitore e chiedergli auto se si trovasse in difficoltà.»  

Prima parlavi di attaccamento sicuro e insicuro…

«Ci sono quattro tipi di attaccamento: sicuro, in cui il bambino riesce ad avere una capacità di esprimere il proprio assenso o dissenso e riesce ad accettare e perdonare eventuali manchevolezze del genitore. Distanziante, quando il bambino vede che il genitore non riesce a cogliere quelle che sono le sue esigenze e quindi tende a ignorare il genitore. Sono per esempio i bambini “gioiello” che dove li metti stanno, non guardano tanto il genitore, si fanno i fatti propri e non rompono le scatole. Resistente, in cui il genitore a volte risponde in maniera molto interessata e adeguata e a volte non adeguata; quindi questi bambini fanno fatica a prevedere il comportamento del genitore e questo in genere si esprime con un atteggiamento di resistenza ad eventuali separazioni: hanno sempre bisogno di tenere il genitore a contatto con loro perché devono tenerlo sotto controllo; non si fidano di quello che pensa. C’è infine l’attaccamento disorganizzato, in cui i bambini assumono per lo più un comportamento incongruo.  Per esempio sono bambini che si avvicinano al genitore ma voltano la testa da un’altra parte oppure cercano di abbracciare il genitore e subito doposbattono la testa contro il muro.  Uniscono tutta una serie di vestigia di comportamenti che potrebbero avere un senso ma che unito così non ce l’hanno e appunto viene chiamato modalità disorganizzata. Di solito in questi casi il comportamento del genitore è erratico o addirittura malevolo nei confronti del bambino; per esempio possono essere genitori che soffrono molto e quindi non hanno spazio mentale per il bambino o addirittura essere abusanti fisicamente, emotivamente o sessualmente. L’attaccamento distanziante e resistente possono essere collegati, ma non necessariamente, ad una patologia in età adulta. Quello che invece è collegato ad un probabile sviluppo di patologia, in particolare ai disturbi di personalità gravi, è l’attaccamento disorganizzato.» 

Quindi, molto della nostra salute psichica, dipende da queste prime relazioni…

«Queste modalità di attaccamento si sviluppano in base al ripetersi di diverse modalità di interazione tra il genitore e il figlio anche se non sempre ne è responsabile il genitore. Possono esserci delle inferenze di tipo neurologico in cui il bambino non riesce ad interpretare in modo corretto quello che gli viene offerto dal genitore e si possono creare distorsioni relazionali indotte dalla malattia (come accade ad esempio con i bambini che hanno un disturbo da deficit di attenzione e iperattività).»

Cosa c’entra tutto questo discorso sull’attaccamento del bambino con noi?

«C’entra perché questa modalità di relazione tra il genitore e il figlio viene messa in atto con tutte le figure significative nella vita della persona. Vi è come una tendenza ad autoaffermarsi perché creano aspettative che poi, indotte proprio dal modo in cui si è abituati a comportarsi, si verificano continuamente. Ciò contribuisce alla loro stabilità nel tempo. Non sono impossibili da cambiare, ma abbastanza stabili nella vita della persona da quando si sviluppano fino alla vita adulta.»

E cosa c’entra tutto questo con la mentalizzazione?

«Quando ci immergiamo empaticamente in un’altra persona, ci rendiamo conto dello stato di essere di quella persona oltre a dove è diretta; questo ci aiuta nell’indirizzarci nel rapporto con l’altro. Un attaccamento sicuro (o insicuro)  è la condizione minima di base che può permettere lo sviluppo di una capacità emotiva. Se è vero che le emozioni sono una capacità innata è altrettanto vero che il loro sviluppo, la capacità di diventare coscienti di esse, non lo sono affatto. Queste sono frutto di un prolungato biofeedback sociale tra il bambino e chi di lui se ne prende cura.»

Come si sviluppa questa capacità emotiva?

«Siamo tutti predisposti ad avere emozioni, fin dai primissimi mesi di vita.  Invece il loro sviluppo e consapevolezza non sono qualcosa di scontato; ci sono persone che non sviluppano una consapevolezza emotiva. Se chi si prende cura del bambino è in grado di rispecchiare in maniera marcata le emozioni che il bambino esprime e non semplicemente reagire a tale espressione, il bambino lentamente, grazie al ripetersi di tale evento, apprende che l’emozione che vede nel genitore è proprio quella che lui sta sentendo e così diviene consapevole di tale emozione, il che puoi potrebbe portare il bambino ad una modulazione della sua emozione e magari in futuro anche alla capacità di controllarla.»

Quindi l’attaccamento è la base e da qui il bambino, grazie ad una continua interazione empatica con chi di lui se ne prende cura, può sviluppare una propria consapevolezza emotiva, riconoscendo, esprimendo e modulando le emozioni

«Si, e proprio questa consapevolezza è il cuore della mentalizzazione e quindi della capacità di capire dove lui è diretto e dove sono diretti gli altri. Il modello della mente, privo dell’aspetto emozionale, è troppo povero perché non ci consente di capire bene come funzioni il mondo. Tanto è vero che ci sono alcuni pazienti (che vengono chiamati pazienti autistici ad alto funzionamento – Asperger), che riescono superare molti dei problemi che non riescono invece a risolvere altri pazienti autistici; eppure il loro funzionamento è deficitario perché manca la capacità di comprendere le emozioni. Non è che non le hanno, sicuramente le provano e ne hanno anche un grandissimo bisogno ma non riescono ad entrarci in contatto.» 

Qualora sia andato tutto bene durante il periodo dell’attaccamento, ci sono situazioni in età adulta che possono alterare il processo di mentalizzazione?  

«Direi di si perché non siamo mai al sicuro. Dipende dall’intensitàdel  trauma, o dalla situazione avversa che dobbiamo affrontare, da quante volte viene ripetuto, ma in generale un attaccamento sicuro è una sorta di dotazione che conferisce più risorse interne.  In questo caso è più difficile che si sviluppino circuiti negativi perché chi ha avuto un attaccamento sicuro, co comunque non disorganizzato, è più facile che possa farsene una ragione e che ciò possa addirittura favorire un processo di crescita personale.»

La psicoterapia si basa sulla relazione. Esiste però una modalità o una tecnica specifica in grado di restituire in toto o in parte questa importante capacità di mentalizzare?

«I principi che regolano la terapia basata sulla mentalizzazione si basano sul fatto che il problema fondamentale delle persone con disturbi di personalità grave sia un deficit di mentalizzazione. Si potrebbe dire in maniera molto semplice che è tutto qui: far riacquisire la capacità di mentalizzare grazie alla dinamica relazionale tra il paziente e terapeuta. Attraverso tale relazione il paziente apprende dal terapeuta come si comporta nelle varie situazioni e come reagisce; così apprende più implicitamente che esplicitamente. Nei casi più gravi, il traguardo ad una mentalizzazione esplicita è poco realistico e forse nemmeno utile.»

Però la  terapia basata sulla mentalizzazione è una psicoterapia che è stata manualizzata…

«Si, c’è un manuale che dice quello che devi fare e come lo devifare; questo in parte si distacca dalle sue origini che sono psicodinamiche. C’è tutta una scala di interventi di base che vanno dal supporto empatico a interventi di riflessione e confronto o sfida da parte del terapeuta verso il paziente fino ad arrivare ad interventi di mentalizzazione basica e di mentalizzazione integrativa, in cui ci si sforza anche con l’aiuto di interpretazioni, di dare un senso a quello che è accaduto al paziente; in alcuni casi si può arrivare ad interventi di mentalizzazione di transfert, che sono più difficili ma non impossibili, in cui il terapeuta può provare a fare capire al paziente come si sta comportando nella relazione terapeutica. Da sottolineare che la psicoterapia individuale è un aspetto, soprattutto per i disturbi di personalità grave, a cui si affiancano psicoterapie di gruppo, aiuti di supporto sociale o di terapia espressiva.»

Questo metodo ha una chiara idea dello scopo che si prefigge e forse anche per questo è stato sottoposto a critica da alcuni colleghi…

«Avere un’idea chiara di quello che si fa e perché lo si fa è certamente fondamentale, ma le cose non sono così semplici: la realtà è molto più complicata. E’ lodevole lo sforzo compiuto da tutte le persone che si occupano di mentalizzazione di dare una chiara cornice di riferimento, ma il costo a volte è quello di essere troppo semplicistici. Prendiamo ad esempio il motto dei terapisti: “non diamo ricette, noi cerchiamo di dare comprensione nel qui e ora di ciò che accade tra noi e il paziente”. Chiunque ha pratica di psicoterapia sa che in gioco c’è molto altro, ma è utile a mio avviso mantenere questa disposizione nei confronti dei pazienti.»

Approfondimenti

Peter FonagyGyorgy GergelyElliot JuristMary Target, Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé

G. Gergely, The social biofeedback

Daniel J. Siegel, Mary Hartzell, Errori da non ripetere (Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori)

Disney-Pixar, Inside out (film d’animazione)