Nei poemi omerici ricorre spesso la formula ζώειν καὶ ὁρᾶν φάος ἠελίοιο “vivere e vedere la luce del sole” come espressione particolare per indicare “l’esistenza in vita”. Per esempio, quando la Maga Circe preannuncia a Odisseo che, prima di tornare in patria, dovrà scendere “nelle case di Ade”, ovvero nel mondo dei morti, per interrogare l’anima dell’indovino Tiresia che dovrà prefigurargli le condizioni del ritorno e persino prospettargli il futuro che lo attende dopo il rientro a Itaca, Odisseo si sente venir meno e in questo modo si esprime (ricordo che Odisseo, con un lungo flashback, sta raccontando le sue travagliate vicende al re Alcinoo):

ὣς ἔφατ’, αὐτὰρ ἐμοί γε κατεκλάσθη φίλον ἦτορ·  

κλαῖον δ’ ἐν λεχέεσσι καθήμενος, οὐδέ νύ μοι κῆρ  

ἤθελ’ ἔτι ζώειν καὶ ὁρᾶν φάος ἠελίοιο.  (Od. 10.496 sgg.)

Così diceva [Circe] e a me si spezzò il cuore; 

piangevo seduto sul letto e il mio cuore

più non voleva vivere e vedere la luce del sole.

Vivere e vedere la luce del sole significa semplicemente vivere. È straordinariamente interessante questa formula, perché vita e luce del sole sono associate sempre in un’inestricabile unità concettuale. Tant’è che qualche centinaio di versi più avanti, quando Odisseo scende nell’Ade e incontra Tiresia, questi gli si rivolge variando opportunamente la medesima espressione formulare:

ἦλθε δ’ ἐπὶ ψυχὴ Θηβαίου Τειρεσίαο,  

χρύσεον σκῆπτρον ἔχων, ἐμὲ δ’ ἔγνω καὶ προσέειπε·  

[‘διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν’ ’Οδυσσεῦ,]  

τίπτ’ αὖτ’, ὦ δύστηνε, λιπὼν φάος ἠελίοιο  

ἤλυθες, ὄφρα ἴδῃ νέκυας καὶ ἀτερπέα χῶρον;  (Od. 11.90 sgg.)

ma venne poi l’anima del Tebano Tiresia

con uno scettro d’oro, mi riconobbe e mi parlò:

«Divino figlio di Laerte, Odisseo dai molti inganni

perché mai, sventurato, lasciando la luce del sole

venisti, per vedere i morti e questo luogo senza gioia

Dove si trovano i morti, dunque, non c’è luce del sole. E Odisseo compie un’impresa unica, ovvero si reca là, dove non c’è la luce e quindi dove non c’è vita, da vivo. Estrema sfida ardita e, per certi aspetti, tracotante, perché contro natura. Qui Odisseo assume in toto la veste dell’insaziabile eroe “assettato di conoscenza”, che per rivoli non perfettamente chiari e individuabili, arriverà a Dante, il quale nel XXVI del’Inferno lo renderà protagonista di quell’affermazione che è fondamento e fine della cultura umanistica: 

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.

Ora alcune semplici considerazioni si impongono. Innanzi tutto dal testo omerico si evince che nella fase arcaica i Greci avevano già elaborato una visione abbastanza chiara dell’aldilà; certamente pessimistica e tetra, ma comunque definita nei tratti essenziali. Si tratta di un mondo di tenebra, dove coloro che hanno lasciato la luce del sole, quindi la vita, si presentano in forma di ἀμενηνὰ κάρηνα amenená kárena “vane, inconsistenti teste”. Lo preannuncia Circe, impartendo a Odisseo precise istruzioni sul comportamento da seguire al momento in cui incontrerà gli abitatori dell’Ade:

βόθρον ὀρύξαι ὅσον τε πυγούσιον ἔνθα καὶ ἔνθα,

ἀμφ’ αὐτῷ δὲ χοὴν χεῖσθαι πᾶσιν νεκύεσσι,

πρῶτα μελικρήτῳ, μετέπειτα δὲ ἡδέϊ οἴνῳ, 

τὸ τρίτον αὖθ’ ὕδατι· ἐπὶ δ’ ἄλφιτα λευκὰ παλύνειν.

πολλὰ δὲ γουνοῦσθαι νεκύων ἀμενηνὰ κάρηνα,  (Od. 10.517 sgg)

Scava una buca, larga quanto un cubito da un lato e dall’altro

di qua e di là versa una libagione a tutti i morti 

prima di latte e miele poi di vino soave,

in terzo luogo d’acqua e sopra spargi bianca farina.

Poi rivolgi molte preghiere alle vane teste dei morti

Odisseo porterà infatti con sé un ariete e una pecora nera, che dovrà sgozzare, dopo aver compiuto le libagioni in onore dei morti, i quali cercheranno di avvicinarsi al sangue, per berlo e riprendere forza e quindi poter parlare. Circe però gli raccomanda:

αὐτὸς δὲ ξίφος ὀξὺ ἐρυσσάμενος παρὰ μηροῦ  

ἧσθαι, μηδὲ ἐᾶν νεκύων ἀμενηνὰ κάρηνα  

αἵματος ἄσσον ἴμεν πρὶν Τειρεσίαο πυθέσθαι.  (Od. 10.535 sgg)

Ma tu, estratta dal fianco la spada

siedi e non permettere alle vane teste dei morti

di avvicinarsi al sangue prima che tu abbia interrogato Tiresia


Il cranio, dunque, rappresenta la persona defunta e l’immagine acquista efficacia dal vuoto che caratterizza il capo, privato di ogni elemento fisico vitale; ἀμενηνά sembra da riconnettersi a μένος ménos “forza, vigore” quindi, per ἀ- privativo, “teste senza μένοςsenza forza, senza vigore”. 

Accanto a queste formule, però, in questa parte dell’Odissea compare già con un suo senso ben preciso la parola chiave, quella che sarà il termine specifico, in tutta la tradizione culturale d’Occidente, per designare il principio della vita e l’elemento in grado di sopravvivere dopo la dissoluzione del corpo, ovvero ψυχή psyché “anima”. 

Così Circe preannuncia a Odisseo ciò che accadrà:

ἔνθα δὲ πολλαὶ  

 ψυχαὶ ἐλεύσονται νεκύων κατατεθνηώτων.  (Od. 10.531 sg.)

qui poi molte

anime verranno dei cadaveri morti

E infatti, quando Odisseo scende nell’Ade:

αἱ δ’ ἀγέροντο 
 

ψυχαὶ ὑπὲξ ’Ερέβευς νεκύων κατατεθνηώτων·  

νύμφαι τ’ ἠΐθεοί τε πολύτλητοί τε γέροντες  

παρθενικαί τ’ ἀταλαὶ νεοπενθέα θυμὸν ἔχουσαι,

πολλοὶ δ’ οὐτάμενοι χαλκήρεσιν ἐγχείῃσιν,  

ἄνδρες ἀρηΐφατοι, βεβροτωμένα τεύχε’ ἔχοντες·  (Od. 11.36 sg.)

e s’adunarono

le anime uscite dall’Erebo dei cadaveri morti

fanciulle e giovani e vecchi che molto avevano patito

vergini ancora intatte dall’animo inesperto di dolore

e molti, dilaniati dalle punte di bronzo,

eroi caduti in battaglia, con le armi coperte di sangue.

Orbene, il termine ψυχή psyché , da collegarsi al sostantivo ψῦχος psycos “freddo, fresco” e al verbo ψύχω psycho “soffiare, alitare, emettere soffi freddi”, inizialmente non sembra aver nessun significato che vada oltre la materialità della cosa che indica. Secondo uno dei più grandi grecisti del XX secolo, Bruno Snell, ψυχή, soprattutto nell’Iliade, aveva un significato molto concreto e circoscritto, indicava cioè il soffio ultimo, l’alito estremo che veniva esalato dall’eroe morente sul campo di battaglia, una volta emesso il quale, restava del guerriero il σῶμα sôma, il “cadavere” cioè l’involucro fisico, materiale dal quale era uscita, con l’ultimo respiro, la vita. 

Nei passi dell’Odissea, poco sopra citati, osserviamo dunque, a me sembra, il momento critico dello slittamento semantico di ψυχή dal valore materiale a quello più vicino al nostro concetto astratto. Il valore di ψυχή si stacca da quello figurato che ancora caratterizza l’espressione ἀμενηνὰ κάρηνα amenená kárena, per acquisire un suo specifico significato, concettualmente nuovo.

Il primo esempio ben chiaro lo troviamo quando Odisseo vede presentarsi, con sorpresa, l’anima di un suo compagno, Elpenore, caduto dal tetto del palazzo di Circe, dove era salito cercando frescura, dopo aver bevuto un po’ troppo; svegliatosi di soprassalto al momento della partenza per le dimore di Ade, non ricordava più dov’era la scala e, levatosi senza rendersi conto di dove si trovava, era precipitato a capofitto (καταντικρύ catantik):

πρώτη δὲ ψυχὴ ’Ελπήνορος ἦλθεν ἑταίρου·  

οὐ γάρ πω ἐτέθαπτο ὑπὸ χθονὸς εὐρυοδείης·  

σῶμα γὰρ ἐν Κίρκης μεγάρῳ κατελείπομεν ἡμεῖς  

ἄκλαυτον καὶ ἄθαπτον, ἐπεὶ πόνος ἄλλος ἔπειγε.  (Od. 11.51 sg.)

Per prima l’anima del compagno Elpenore venne,

non aveva ancora avuto onori di sepoltura sotto la terra larghe vie;

il corpo infatti lasciammo noi presso il palazzo di Circe

senza compianto e senza sepoltura, perché altro impegno premeva.

In questo passo è evidente come l’opposizione ψυχή/σῶμα superi chiaramente quella materiale fra respiro/cadavere, e abbia assunto il valore indubbio di anima/corpo. Tuttavia in tutto il libro XI i valori semantici, che pur vanno stabilizzandosi, sono ancora parzialmente fluttuanti ed è possibile riconoscere nei sintagmi e nelle formule le tracce degli antichi significati, in via di trasformazione. 

Ne è un esempio interessante l’espressione ψυχαὶ…νεκύων κατατεθνηώτων, che alla lettera significa “anime dei cadaveri morti” e che molto probabilmente, già nella fase più antica, era interpretata semplicemente con il significato di “anime dei morti”; il suo valore originario, tuttavia, rivelato dalla doppia presenza di termini utilizzati ciascuno a indicare i morti – l’uno sostantivo, νεκύων, che indica i “cadaveri”, l’altro, κατατεθνηώτων, “morti” participio perfetto del verbo θνῄσκω, “morire” – è propriamente quello di “soffio dei cadaveri che sono morti”

ψυχή quindi, che indicava in origine proprio l’alito, il respiro finale, in formule come quella citata passò poi a indicare invece lo “spirito”, con uno slittamento semantico che trasformava lo “spirare fisico”, inteso come “evanescenza tattile”, nell’idea astratta di un’“immaterialità concettuale”. Se ψυχαὶ acquista da solo il valore di “spiriti, anime”, νεκύων κατατεθνηώτων si agglutina in un’espressione ridondante interpretata semplicemente come “morti”. Dai “soffi dei cadaveri morti” si passa, proprio in testi come quelli citati, alle “anime dei morti”. 

Quanto tempo è stato necessario perché sorgesse questo concetto, perché cioè si sviluppasse l’idea che, al di là del fatto fisico di un soffio, dal corpo usciva insieme con quel soffio anche il principio della vita? Non è facile dirlo. Questi passi omerici, però, sono la testimonianza che il concetto di “vita oltre la morte”, ancora priva di relazioni con i concetti di “premio e castigo”, ma già chiaramente configurata come sopravvivenza al corpo di un elemento irriducibile al nulla, si è insinuato definitivamente nell’immaginario europeo. 

Su questo nuovo concetto poi si innesterà il pensiero dei filosofi presocratici, si aprirà il dibattito fra tesi opposte, da un lato Pitagora, dall’altro Democrito; da un lato Eraclito, dall’altro Anassagora; da un lato Platone, dall’altro Aristotele; da un lato Epicuro dall’altro gli Stoici. E non entriamo qui nella visione ebraica e poi cristiana, soprattutto paolina, della teoria dell’anima e infine del concetto di “corpo come Tempio dello Spirito”, perché si aprirebbero ulteriori, infinite finestre.

Già fra i primi filosofi troviamo chi crede nella vita oltre la morte e chi invece interpreta la vita dell’uomo come temporanea combinazione di elementi materiali. In questo quadro dialettico mi piace pensare che già aveva spinto ben avanti l’inquietudine per l’interminabile ricerca del pensiero occidentale il più misterioso e affascinante dei filosofi antichi, Eraclito ὁ Σκοτεινός, l’“Oscuro”, le cui parole ancora risuonano come una conquista già sicura della visione dell’anima umana : 

ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο,

πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει.(Frg 45 DK)

I confini dell’anima non riusciresti a trovarli,

neppure percorrendo in lungo e in largo ogni strada, 

tanto profondo è il suo pensiero.

Con vertiginoso passaggio Eraclito trasforma quel “soffio gelido” emesso dall’eroe morente, nel fattore che distingue gli esseri viventi, in particolare quelli dotati di intelligenza e ne fa il principio stesso fondativo della dimensione umana: l’Anima; se si perde la quale – aggiungiamo noi – non si è che cadaveri, ἀμενηνὰ κάρηνα, teste vuote, ancorché vivi e vegeti, e alla luce del sole.

In conclusione: i concetti che abitualmente utilizziamo non sono sempre esistiti, ma nascono in grembo alla cultura classica, greca in particolare, e ancor oggi esercitano con potenza inaudita la loro efficacia nei nostri orizzonti di pensiero e di senso. Gli strumenti concettuali che usiamo, talora con disincantata superficialità e trascurata sufficienza, in realtà derivano da un lungo travaglio e da una lentissima maturazione. La scoperta dell’anima è una conquista della quale forse non abbiamo ancora compreso a fondo il valore.