Una serie tv.  Non  un’inchiesta che sveli retroscena inediti, non  un documentario che illustri fedelmente ciò che era. Neppure un film che con la sua narrazione vada a colpire corde profonde. Eppure una serie tv è bastata a riaccendere un dibattito complesso e difficile, sulla droga, sulle tossicodipendenze, sui rimedi veri o presunti. Tutti in modo viscerale, quasi ideologico. Il fatto è che si tratta di un tema che fa paura. Scava in profondità e fa uscire quello che continuiamo ad avvertire come un mostro. Mostro intimo, famigliare, soprattutto sociale.

È esattamente la riproduzione di quel che tra gli anni ’70 e gli anni ’80 si viveva in una tranquilla, moderna, conservatrice Verona. La città al di fuori delle cui mura “non vi è mondo”, in quegli anni era invece l’ombelico di un mondo spaventoso. La città col maggior numero di tossicodipendenti in rapporto agli abitanti, la città crocevia europeo dello spaccio. C’è a Verona un angolo di verde pubblico bellissimo, una collinetta che sorge  a ridosso della passeggiata in riva all’Adige, vicino la chiesa di San Giorgio. Lì sorge un monumento a Cesare Lombroso, che lo riproduce seduto, pensoso. Ecco, ai suoi piedi si riuniva una vera e propria comunità cresciuta attorno all’eroina. Passavi di lì e tenevi lo sguardo basso, magari acceleravi il passo. Perché sapevi che se avessi alzato gli occhi avresti riconosciuto il tuo vicino di casa, un tuo compagno di scuola. Un giorno forse, qualcuno ci realizzerà una serie tv, ma oggi a quello, a quel paradigma estremo, si rivolge il pensiero per capire ragioni e torti della guerra che si cerco’ di ingaggiare contro il mostro, di cui la storia di San Patrignano è parte importante, comunque la si pensi.

«Sai qual’è la verità? Che tirando le somme, Muccioli ha vinto». A dirlo è Achille Saletti, veronese, in quegli anni prima liceale, poi universitario, diventato criminologo con uno sguardo sempre puntato proprio sulle tossicodipendenze, tanto da collaborare nella progettazione sociale con la storica  rete di comunità di recupero Saman, fino a diventarne presidente nel 1997. «Sì, possiamo dire che ha vinto Muccioli, non perché il suo modello fosse giusto, ma anzi perché stiamo ancora discutendo se punire o meno i tossicodipendenti. Decenni dopo le costrizioni di san Patrignano, le sue catene, l’approccio è ancora quello. Guarda, è una cosa assolutamente trasversale: non parlo solo di politica, ad esempio della Lega che ha in Parlamento una proposta di legge, che considera proprio di punire i consumatori, ma anche dei media che sono espressione di sentimenti diffusi. Alcuni mesi fa, in un editoriale su uno dei principali quotidiani, un opinionista di punta sosteneva che è giunta l’ora di segnalare i cocainomani rendendo pubbliche le loro identità..»

Achille Saletti

Mi stai parlando di una questione culturale.  Come fossimo inchiodati a quel tema…

«Certo,  pensa che il dibattito che ha portato all’ultima legge sulle droghe, la 309 del ’90, ha riguardato quasi esclusivamente gli aspetti penalistici. Nessuno si è posto la domanda se il sistema di servizi pubblici o privati rivolti alle tossicodipendenze abbia una sua efficienza.»

Qualcuno potrebbe dire che evidentemente quello è il tema e Muccioli aveva ragione…

«No, perché all’estero i modelli si sono evoluti, sono cambiati, si sono messi in discussione. Il nostro è un Paese che non vuole cambiare. Ovunque in Europa il tema della cosiddetta riduzione del danno è sempre aperto. Noi  – lo ripeto – stiamo ancora parlando delle catene di San Patrignano, condannandole o difendendole»

Però devi ammettere che la domanda “quanto sei disposto a fare del male, per fare del bene?” è potente…

«Sì, è potente ma costruisce un paradigma sbagliato. Ogni concetto di cura, presuppone che tu non debba fare del male. Intendiamoci,  se parliamo di quegli anni dobbiamo riconoscere la reale volontà di fare qualcosa per affrontare il problema, ma tutto costruito su un’ignoranza oggettiva. Nasceva una comunità dietro l’altra, ma nessuno sapeva nulla, nessuno aveva una competenza specifica. Si pensava che fosse sufficiente l’ideale imposizione della mano del leader perché il tossicodipendente  abbandonasse la strada della droga.»

Dall’imposizione della mano alle botte, alla coercizione…

«Già. Ma non è cosi’ astruso. La concezione era che in quanto tossicodipendente tu non fossi in grado di esercitare un tuo pensiero e io quindi fossi autorizzato a sostituirmi a te. Logico che a quel punto ogni mia convinzione diventa regola da applicare. Diventava un delirio di onnipotenza, che era una cosa comune. La  figura del leader carismatico era presente ovunque.»

Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano

Si creavano dei mondi a parte. La Fortezza. E da lì l’isolamento?

«E con quello l’autoreferenzialità e l’incapacità di riconoscere gli errori. Ma riassumendo tutta questa storia, l’errore è semplicemente pensare di poter salvare qualcuno. Il motore del cambiamento è nella stessa persona. Pensa che se ci sono drogati che si sono salvati nelle comunità, ve ne sono altri che si sono salvati con i farmaci e perfino chi ne è uscito stando in carcere. La verità è che tu non salvi nessuno.»

Dibattere ancora di Muccioli e di San Patrignano ha senso?

 «Ti posso dire che è un tema di cui personalmente non mi interessa nulla. Proprio per  quel che ho detto, credo abbia senso parlare di servizi, di accompagnamento all’uscita dalla dipendenza. Dando per scontato  che violenze, costrizioni, umiliazioni non debbano mai più albergare  in qualsiasi tentativo.»