Il 2020 è stato un anno tragico per il mondo dello sport. Le discipline più ricche e in voga, in un modo o nell’altro sono rimaste a galla e, soprattutto, sono riuscite a garantire la prosecuzione di gare e campionati di vertice. Se non tutti, la maggior parte. Tuttavia, questa continuità non ha evitato l’emersione di pesanti criticità finanziarie e l’inadeguatezza di larga parte della classe dirigente, capace solo di ricercare il massimo profitto individuale tra le maglie dei regolamenti. Le conseguenze di lungo periodo sono ancora da comprendere nella loro portata, ma gli allarmi sulla tenuta del sistema sono molti. In tal senso appare addirittura emblematica la rinuncia della Virtus Roma che, quasi a sorpresa, ha deciso di non proseguire il proprio impegno nel massimo campionato nazionale di pallacanestro.

Un fase di gioco di una partita di basket

Gli scenari non sono affatto rosei, anche perché è difficile intuire come il tifoso, principale acquirente del prodotto sportivo d’elite, stia reagendo ad un tale contesto. Ogni giorno nuove positività al Covid-19 obbligano a modifiche dei calendari sportivi e falcidiano atleti e squadre, rendendo i risultati sportivi poco significativi, anche alla luce della difficoltà di armonizzare le regole su scala internazionale. C’è da sperare che l’appassionato rimanga un cliente affezionato, ma segnali di cedimento vengono registrati un po’ ovunque, un effetto tutto sommato naturale, se si pensa a quanto la quotidianità di ogni individuo sia stata stravolta in solo pochi mesi. L’azienda sport, dunque, non se la passa bene, esattamente come qualsiasi altra impresa, affossata dalla pandemia nei propri ricavi d’esercizio e incapace di immaginare con fiducia un futuro a breve.

Nella valutazione del momento, però, ci si sofferma troppo a osservare l’azienda calcio, come se essa fosse rappresentativa di un mondo viceversa molto più eterogeneo e frammentato, dalle disponibilità ed esigenze spesso distanti anni luce da quelle del pallone. Ci si rammenta poco dei giovani, dei dilettanti o degli amatori, dei disabili e dei semplici appassionati, che in forma organizzata praticano una qualsiasi attività a livello agonistico o ludico ricreativo, animando strutture, campi e palestre in ogni parte del Paese. Per loro le cose, rispetto ai professionisti, stanno andando ancora peggio. Dopo il lockdown di primavera, che ha interrotto per ognuno e senza deroga alcuna ogni possibilità di praticare il proprio sport preferito, è cominciata la vera e propria agonia. Nei mesi estivi si è assistito a una fase di vera e propria illusione di poter tornare alla routine di sempre e ognuno ha dedicato il proprio tempo come meglio poteva a tale scopo: le società sportive a organizzare l’attività, gli allenatori a pianificare un nuovo modo di lavorare, gli atleti a ripristinare una condizione psicofisica accettabile. Questa illusione ha retto per alcune settimane, sconfinando anche nei primi giorni di settembre quando, come d’abitudine, prendono il via gran parte delle attività. Per tutti gli addetti ai lavori è stato un periodo estremamente intenso, tra l’accurato studio dei protocolli, l’acquisto del materiale per l’igienizzazione degli spazi e dell’attrezzatura, la formazione e l’avvio di un’attività organizzata secondo nuovi parametri basati sul distanziamento. Con l’avvio delle scuole, molte attività sono cominciate, ma – occorre precisarlo – solo grazie al concomitante e fondamentale contributo di Sindaci e Presidenti di società che hanno dovuto assumersi integralmente la responsabilità della riapertura degli impianti e dello svolgimento delle discipline sportive. In tal senso nessun aiuto è arrivato dai vertici sportivi che hanno serenamente delegato ai territori tutto il peso di riprendere in modo nuovo, con responsabilità nuove, ma secondo schemi tradizionali di impostazione dell’attività. Nessuno che si sia preso la responsabilità politica di provare a innovare, a uscire da un solco tracciato da decenni. In pochi giorni poi, si è ritornati nell’incubo. Non solo si è riaffacciata la pandemia nella sua rinnovata versione “seconda ondata”, ma si sono susseguiti Dpcm, Ordinanze e comunicati stampa, che hanno visto protagonisti Governo, autorità locali e Federazioni, in un turbinio di regole fatte, rifatte e stravolte, che ancora oggi rende incomprensibile ai più la ratio di molte limitazioni. Denominatore comune di questa fase, in corso ancora oggi, è la confusione.

Come spesso avviene nel caos, ognuno ha pensato secondo coscienza o secondo logiche opportunistiche, proponendo la sua personale linea di condotta, la propria interpretazione. Abbiamo dunque assistito a Federazioni ligie a chiudere ogni attività non professionistica al primo “colpo di tosse” del Governo – FIP in primis -, altre costrette a salti mortali per tutelare perlomeno gli atleti di caratura internazionale causa totale chiusura degli impianti necessari alla propria attività – FISI su tutte – e Federazioni, invece, che hanno ricercato interpretazioni normative degne di un “azzeccagarbugli” per garantire continuità al maggior numero di tesserati possibile. Si è in generale assistito a un quotidiano dissenso tra autorità di diverso grado e rilevanza, tra cui Governatori e Sindaci, capaci di aprire e chiudere le palestre tra una notte e l’altra, prevaricando o sottomettendosi a altre cariche istituzionali, alimentando il conseguente sconcerto tra i praticanti. Le parole organizzazione, pianificazione, programmazione, coerenza, così centrali nell’educazione sportiva, sono dunque venute meno. Possiamo attribuire la colpa al Covid-19 che sta esponendo tutti a situazioni mai vissute prima, ma è prima di tutto un problema di qualità di governance.
Quel che è più grave, però, è che l’assenza di una linea guida istituzionale ha prodotto una deriva nei comportamenti che sta portando lo sport ad un punto di non ritorno. Si pensi, per esempio, al tema dei bonus a sostegno del reddito sportivo: è probabile che molti siano stati erogati alla luce di una effettiva interruzione dell’attività, ma anche che, in alcuni casi, siano stati richiesti – formalmente a giusto titolo – perché i compensi promessi hanno smesso di essere bonificati anche in contesti dove si è proseguita l’attività. Un’interruzione, quindi, priva di giustificato motivo. Sui bonus, poi, è interessante verificare anche come siano stati molto spesso accreditati integralmente a soggetti che mai hanno percepito compensi per prestazioni sportive di medesimo importo, ma solo decisamente inferiori. Una responsabilità legislativa, ma che sta producendo effetti distorsivi non indifferenti. Non si delinea uno scenario migliore se, spostando l’attenzione sul rispetto delle norme anti Covid, proviamo a calcolare il guadagno netto di ogni singola Federazione rispetto agli improvvisati tesseramenti di una moltitudine di “atleti”, in autunno diventati all’improvviso di interesse nazionale per il solo fatto di essersi affiliati e, pertanto, nella possibilità di continuare ad allenarsi. Ragazzini o cinquantenni, tutti a caccia di un tesseramento per poter far sport in pausa pranzo o nel dopo scuola. Infine, sarebbe da calcolare il numero delle realtà sportive che in questi mesi hanno aggirato norme e ordinanze assegnando fittiziamente atleti in squadre di categorie diverse o architettando diverse soluzioni border line solo per garantire la prosecuzione degli allenamenti.


Il quadro che ne emerge è decisamente sconfortante e rappresenta un mondo sportivo nel caos, senza un Governo e, soprattutto, senza una visione sul futuro. Tutto sembra passi inosservato con la sfera istituzionale che pare preoccupata solo di mantenere ben saldo lo status quo, in un periodo storico in cui appare puerile e poco lungimirante anche solo ipotizzare che nulla cambi.
In balia dell’assenza di una strategia sanitaria chiara e di una retta governance da parte del Coni e delle singole Federazioni, lo sport è stato assalito dal germe dell’anarchia con la conseguenza che ci stanno rimettendo tutti.
Se in queste settimane lo sport di vertice già ha provveduto a inginocchiarsi chiedendo un supporto al Governo, sperando in un approccio caritatevole da parte delle Istituzioni, lo sport di base è già chino da mesi a pregare e scongiurare per uno stop a questa fase di tumultuoso caos, in cui alla pandemia si è aggiunta la piena consapevolezza che lo sport rimane, come molti altri ambiti dimostrano, avulso dalla meritocrazia, dalla professionalità e dall’etica.
Si riprenda il prima possibile a giocare, compatibilmente con l’emergenza sanitaria, si ritorni a competere e a ricercare la vittoria e il miglioramento individuale, perché da fermi, a guardarlo bene, questo nostro sport oggi non ha nulla di buono da promuovere. Urge il coraggio di guardare a modelli diversi e di cominciare a delineare una riforma integrale delle regole che non utilizzi solo il vertice come parametro di riferimento.

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