Quella notte a Berna
Il 22 maggio 1979, in occasione di un'amichevole giocata in Svizzera tra Argentina e Olanda, finaliste nel Mondiale dell'anno precedente, in mezzo al campo trova spazio un diciottenne di cui si parla già come un predestinato
Il 22 maggio 1979, in occasione di un'amichevole giocata in Svizzera tra Argentina e Olanda, finaliste nel Mondiale dell'anno precedente, in mezzo al campo trova spazio un diciottenne di cui si parla già come un predestinato
È il 22 maggio del 1979, un martedì sera. A Berna la Fifa per celebrare il suo 75mo anniversario ha organizzato una di quelle partite che appartengono alla categoria delle cosiddette amichevoli di lusso. Olanda e Argentina si incrociano a undici mesi di distanza dalla notte di Buenos Aires che ha consegnato, non senza ombre, il Mundial ai padroni di casa. La sfida è pomposamente presentata come la rivincita di quella finale. Aurea panzana cui nemmeno gli svizzeri credono, se la prevendita al botteghino, un biglietto varia a 8 a 35mila lire, è fiacca. Alla fine saranno in 28.000 quella sera allo stadio. Lo stesso Menotti taglia corto: «Non parliamo di rivincita. Per me è un’amichevole come tante altre. A Berna disputiamo un incontro, il primo di una lunga tournée, che ci consentirà di gettare le basi del gruppo che l’Argentina presenterà nel 1982 ai campionati del mondo in Spagna». Quattro giorni dopo Berna, gli argentini infatti affronteranno l’Italia all’Olimpico di Roma (in tribuna siede Enzo Bearzot), per poi concludere il viaggio in Europa rendendo visita alla Scozia a Glasgow.
Il ciclo olandese è al capolinea, la rivoluzione arancione ormai sbiadita. In panchina al posto del santone Ernst Happel, è stato chiamato un ex capitano dell’esercito, Jan Zwartkruis, che ha il compito di pilotare la truppa agli europei in programma l’anno seguente in Italia (sarà un disastro). Della vecchia guardia rimangono Krol, Neeskens, Rep e i gemelli Van de Kerkhof. Menotti riparte dagli eroi della finale al Monumental: Fillol, Olguin, Tarantini, Gallego, Passarella, Bertoni, Ardiles, Luque e Ortiz. In mezzo al campo, trova spazio un diciottenne di cui si parla come un predestinato; lo presentano infatti come il nuovo Sivori, il calciatore che segnerà il prossimo futuro. Si chiama Diego Armando Maradona, gioca a Buenos Aires nell’Argentinos Junior, con la cui maglia numero 10 l’anno prima è stato capocannoniere del campionato argentino. In nazionale Menotti lo ha già fatto debuttare nel 1977, un’amichevole contro l’Ungheria: marca altre tre presenze in albiceleste, ma al Mundial Menotti non lo porta: troppo giovane, lui è il domani. Oggi c’è René Houseman, El Loco, pupillo del Flaco all’Huracàn. Così il ragazzino di Villa Fiorito, che sogna di giocare un mondiale e vincerlo, resta a casa. Un anno dopo, la camiseta diez tocca però a lui. Bassottello, capelli corti, faccia da scugnizzo; col sinistro fa ciò che vuole, un maghetto che sprigiona magie. È la prima volta che lo vedo giocare, e ne rimango incantato. «Quello è il calcio» penso.
Della partita, la Rai manda in onda solo una sintesi in differita alle 22.30: la diretta me la godo a colori sul canale della Televisione Svizzera Italiana, per la telecronaca di Giuseppe Albertini, un romano maestro di stile e competenza che la carriera l’ha fatta in Canton Ticino. Se non fosse per le geniali irriverenze di quello sbarbatello con la maglia numero 10, la partita non direbbe un granché. Vince l’Argentina ai rigori, e poco importa perché, tanto, lo spettacolo lo offre il giovane Maradona. È ancora un po’ acerbo, ma per uno che ha appena 18 anni, sfodera qualità tecniche e caratteriali fuori dal comune: reclama palla come un affermato e riconosciuto leader, dribbla, lancia, smista, tira in porta, disegna calcio tra un’invenzione, una piroetta e un affondo. Geniale. Che sia una spanna sopra tutti, non ci vuol molto a capirlo. Che il futuro sia suo, nemmeno. La stella polare nella notte di Berna è la sua. Sarà una cometa per oltre un decennio.
Oltre a Maradona, agli occhi viene uno striscione posto dietro la porta olandese: “VIDELA ASESINO” sta scritto sul telo bianco, all’indirizzo del capo della giunta militare che in Argentina lascia scie di dolore e sangue. Quello striscione è davvero ingombrante; tentano di rimuoverlo, di coprirlo in modo assai goffo con la pubblicità, ma intanto ha già fatto il giro del mondo. Ne compare poi un altro: “LOS MILITARES SON MISERIA Y REPRESION”. La protesta degli emigrati in Svizzera è eclatante e getta il governo argentino nell’imbarazzo. Il Paese ritroverà la democrazia solo tre anni dopo. A un prezzo altissimo. Successe anche questo quella sera a Berna. Storia dai piccoli segnali, ma profetici e indovini. E così quella notte, che solo in apparenza sembrava non dover dire nulla, disse invece tutto.