L’isolamento della popolazione anziana in questa nuova ondata di emergenza sanitaria può portare a nuovi disturbi psicofisici assopiti nel periodo estivo e che possono mettere in crisi anche chi presta le cure ai tanti famigliari in difficoltà o con malattie gravi pregresse come l’Alzhaimer o il Parkinson. O per figli e genitori che non possono più vedersi quotidianamente per la chiusura delle case di riposo. Ne abbiamo discusso con Filippo Cramerotti, psicoterapeuta specialista in psicoterapia cognitiva neuropsicologica, che in quest’anno ha vissuto attraverso i colloqui con i suoi pazienti più maturi diverse problematiche legate al Covid-19. 

Lo psicoterapeuta Filippo Cramerotti

Dottor Cramerotti, è proposta di questi ultimi giorni di un lockdown generazionale, dove gli anziani dovrebbero vivere il più possibile in isolamento per proteggersi dal Covid-19, frequentare gli ipermercati solo nelle prime due ore dall’apertura, e frequentare il meno possibile se non strettamente necessari i nipoti ancora in età scolare. Secondo la sua esperienza si tratta di una buona soluzione o potrebbero nascere altre e più profonde problematiche? 

«Il lockdown, inteso come quello imposto dal governo italiano lo scorso marzo, ha l’importante funzione di tutela sanitaria per l’intera popolazione, al fine di ridurre la possibilità di diffondersi del virus e quindi l’aumento del contagio. Tuttavia, la forte limitazione delle possibilità di scambio sociale, dello svolgimento di attività nel pieno delle proprie libertà e scelte e, non in ultimo, l’obbligo di rimanere chiusi nel proprio ambiente domestico, crea problematiche psicologiche di vario genere e gravità. Questo fatto, pur applicandosi a tutte le fasce di età, è soprattutto evidente per la popolazione anziana, che più di tutti soffre di condizioni di isolamento, anche in assenza di misure restrittive. È necessario tener conto del fatto che, se da un lato le misure contenitive tutelano maggiormente gli anziani, dall’altro lato si assiste allo sviluppo di forme di elevata sofferenza da emarginazione sociale, le quali possono rapidamente condurre alla depressione. Oltre a ciò, è utile sottolineare la possibilità di esordio di manifestazioni ansiose, determinate dal clima di incertezza e instabilità rispetto al futuro personale e globale. Infine, numerosi studi condotti negli ultimi mesi, hanno evidenziato la diffusione di Disturbo post traumatico da stress Covid-correlato. Quest’ultimo sembrerebbe essere caratterizzato da una maggior percezione di pericolo e vulnerabilità personale, insonnia o ipersonnia (aumentata sonnolenza sia diurna che notturna), inappetenza o iperfagia (ossia alimentazione incontrollata), ansia, depressione e irritabilità. In generale è difficile anticipare scenari di sofferenza psichica in un panorama che, per tutti, risulta incerto e in continuo cambiamento.» 

Rispetto alla prima metà del 2020 come stanno affrontando questa nuova fase dei contagi le persone più mature e quale nuove patologie o problematiche si stanno diffondendo tra la popolazione meno giovane? 

«La risoluzione del lockdown durante il periodo estivo e il relativo ritorno alle normali attività ha consentito il ristabilirsi di una routine che, durante la prima parte dell’anno, appariva del tutto scomparsa. Il riaggravarsi della condizione sanitaria nazionale con il ritorno a importanti misure restrittive, ha fatto ripiombare l’intera popolazione in uno stato di incertezza e sconforto di fronte al futuro. Questa rinnovata condizione ha colpito la popolazione tutta, con maggiore impatto sulla popolazione anziana. Soprattutto le persone ricoverate in case di riposo (o RSA) e in ospedale vivono elevati livelli di isolamento ed emarginazione, con l’aggravante condizione di un sistema sanitario saturo e l’impossibilità di assistenza e presenza da parte di familiari. In uno scenario di questo tipo, ogni problematica fisica o psicologica, pur lieve o grave che sia, tende ad assumere dimensioni preoccupanti e di difficile gestione.» 

Vivere accanto a una persona malata non è soltanto faticoso e doloroso, è una prova che rischia di far saltare l’equilibrio di una intera famiglia. Quando questa malattia è l’Alzheimer, il rischio è ancora più alto. Ci può spiegare quali problematiche nascono nelle persone malate e nei famigliari che sono accanto? 

«L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale (in particolare il cervello), con esordio medio dopo i 65 anni di età e con prognosi infausta. Si tratta di una delle più comuni forme di demenza che porta ad una perdita progressiva di tutte le funzioni cognitive e dell’autonomia. L’Alzheimer è sicuramente una delle patologie degenerative dell’età avanzata che maggiormente mette alla prova famigliari e strutture assistenziali. La sintomatologia eterogenea e altamente invalidante necessita di elevati livelli di gestione e contenimento, oltre che un notevole carico emotivo da parte dei caregivers, ossia coloro i quali si prendono cura del paziente. La patologia, che solitamente esordisce con lievi disturbi di memoria, disorientamento spazio-temporale e difficoltà linguistiche, evolve rapidamente in disturbi più complessi, come la perdita quasi totale della memoria a breve termine, l’incapacità di esprimere in maniera autonoma le proprie necessità, la tendenza all’aggressività e la progressiva e irreversibile perdita di autonomia. Questa sintomatologia, lentamente ingravescente, porta il malato, nel giro di pochi anni, ad essere totalmente dipendente dalle figure di accudimento. Inoltre, in abbinamento al carico di assistenza sul piano pratico, i famigliari vengono colpiti dal cambiamento del malato, il quale, la maggior parte delle volte, diventa emotivamente ingestibile. Si assiste, infatti, a una escalation di disturbi comportamentali che spaziano dal wandering (vagabondaggio senza meta), ai comportamenti oppositivi e aggressivi. Un quadro di questo tipo richiede la presenza costante di figure di sostegno e, in alcuni casi, la presenza di un ambiente strutturato in base alle esigenze del paziente. Molte volte questi scenari così emotivamente impattanti e dal decorso fortemente negativo provocano, nei famigliari e nelle figure di cura, livelli altissimi di stress e difficoltà emotiva, portando, nella maggior parte dei casi a quella che viene definita sindrome da burnout. Questa forma di disagio psichico e fisico può essere inquadrata come un vero e proprio esaurimento globale delle persone accudenti. Il burnout conduce i caregivers a una ridotta tolleranza al carico assistenziale e a una maggior vulnerabilità nello sviluppo di forme psicopatologiche.» 

Mentre per il Parkinson, quali sono le criticità e dal punto di vista di chi assiste quali suggerimenti si sente di dare per il supporto al malato? 

«Il Parkinson, anch’essa patologia degenerativa del Sistema nervoso centrale, presenta tuttavia forme e decorso patologico totalmente differente rispetto all’Alzheimer. Richiede infatti minor carico assistenziale, se non nelle fasi finali, e garantisce una maggiore qualità di vita per il paziente. L’esordio avviene intorno ai 60 anni con sintomi prevalentemente di carattere motorio: difficoltà nella scrittura, bradicinesia (lentezza nei movimenti) e tremori a riposo sono fra i primi segnali della possibile insorgenza del Parkinson. I sintomi di carattere cognitivo e legati all’autonomia subentrano lentamente nel corso degli anni. Questo perché, da un lato la patologia ha un decorso generalmente lento, dall’altro lato la farmacoterapia attuale ha evidenziato risultati importanti nell’ottica del rallentamento e della gestione della sintomatologia. L’aspetto assistenziale in questa tipologia di pazienti è legato prevalentemente alla gestione dei sintomi motori e nello svolgimento delle attività nella quotidianità. Le componenti cognitive, come sopra esposto, rimangono pressoché intatte per molto tempo, garantendo un rapporto emotivo-affettivo fra pazienti e caregivers che tende a non modificarsi. Naturalmente non si può affermare che la gestione assistenziale sia compito facile ma, rispetto all’Alzheimer, gli scenari prognostici e legati al burnout cambiano radicalmente. I consigli operativi che posso offrire sono i seguenti e possono interessare qualsiasi tipo di caregivers per l’assistenza di altre patologie: garantire al malato sempre un’elevata qualità comunicativa, caratterizzata da messaggi semplici, tonalità della voce controllata e utilizzo di frasi sintetiche; offrire un ambiente povero di stimoli (ambienti semplificati e agevoli), che non confonda il malato ma che possa facilitare gli spostamenti e l’utilizzo degli oggetti in esso presente; stimolare il più possibile l’autonomia e la condivisione sociale; evitare discussioni o scontri diretti, i quali, soprattutto nel caso dell’Alzheimer, non portano a nessun risvolto positivo di comprensione per il malato; concedersi, come caregivers, dei momenti di stacco dal compito assistenziale, in modo da ridurre il carico emotivo e concedersi delle fasi di recupero.» 

La malattia unita a questo momento storico tanto delicato come mette alla prova gli ammalati e le stesse famiglie? 

«Tutto quanto sopra esposto si aggrava in maniera importante all’interno di questo periodo storico nel quale, oltre alla distanza e all’isolamento vissuto dai malati nelle case di risoso, si assiste al rischio anche negli ambienti domestici del diffondersi del virus per mezzo dei famigliari accudenti o figure ad essi affini. Gli ammalati si trovano, quindi, isolati e senza la possibilità di godere della vicinanza di famigliari e figure di accudimento. In aggiunta a questo, molti malati si trovano a fare i conti con un sistema sanitario saturo e con limitate risorse. I famigliari si trovano, dal canto loro, a non poter assistere i parenti ricoverati e rischiare di non vederli nel momento del trapasso. Questo isolamento forzato mette in crisi il sistema valoriale culturale in cui viviamo. La malattia, la morte, il funerale e la sepoltura divengono momenti di assenza famigliare e di lontananza dagli affetti e dalla possibilità di condivisione del dolore. Lo scenario della pandemia ha determinato uno stravolgimento del modo di vivere globale e ha trascinato le persone in condizioni di segregazione sociale fortissime. Nelle RSA la situazione mette a dura prova le capacità gestionali dei pazienti e del personale sanitario, in quanto si lavora sul doppio filo della solitudine e del sovraccarico lavorativo. Inoltre l’impossibilità, da parte dei malati, di poter condividere le preoccupazioni e la paura per il futuro, per la propria salute, per la distanza incolmabile che li separa da figure affettivamente significative, determina uno scenario che mai prima d’ora si era presentato con questa entità.» 

In particolare, nella città di Verona ha qualche dato rispetto alla situazione degli anziani e delle problematiche legate al Covid-19? 

«Allo stato attuale la situazione della provincia di Verona è descritta a partire dai dati di 80 strutture RSA che ospitano 5.304 anziani e dove lavorano 5.877 operatori. I positivi nelle residenze per anziani sono 177 (il 3,3% del totale) e 4 sono i ricoverati in ospedale (dati risalenti allo scorso mese, in aggiornamento). I morti per Covid-19 sono 303. Infine, sono 90 i lavoratori delle strutture per anziani veronesi positivi al coronavirus, l’1,5% del totale. Purtroppo le fragili condizioni di molti ospiti delle case di risoso rendono maggiormente letale il virus conducendo, molte volte, a infausti prologhi. La speranza è riposta nella rapida commercializzazione di un vaccino che possa garantire copertura per le categorie più a rischio e per gli operatori del settore sanitario. Un grosso rischio di questo inusuale periodo storico risiede nello sviluppo di forme di disturbo post traumatico da stress (come sopra esposto) e di una diffidenza generalizzata nei confronti delle persone, come potenziali veicoli di nuove forme virali. L’assistenza psicologica, in questo frangente, dovrebbe essere tempestiva e mirata per ridurre l’impatto della sofferenza psichica e lo sviluppo delle psicopatologie. Con il passare del tempo dovranno, inoltre, essere garantite forme di supporto a lungo termine per monitorare gli effetti della pandemia sulle varie fasce di età.»