Ho conosciuto Doris molti anni fa, nel pieno dell’inverno australe, tra i fiori del Northern Cape – macchie, ovunque, di colori pastello – e le rocce granitiche che ti accompagnano in Namibia. Faceva l’autostop, una sacca vicino ai suoi piedi e, nella mano destra, un biglietto da cinquanta Rand per farti capire che, da quelle parti, nulla si chiede senza mostrare, subito, un gesto simbolico di gratitudine.

Rallentai. Il suo sorriso mi anticipò; mi offriva un piccolo contributo per la benzina. Decisi di fermarmi. L’accompagnammo fino a Springbok, dove insegnava in una scuola elementare. Fiori e cielo turchino, l’auto in discesa e il silenzio dei suoi sguardi. Osservavo, nello specchietto retrovisore, i suoi occhi sottili e gli zigomi rilevati, lo sguardo attento. Un’età indefinibile. Le offrimmo biscotti, un frutto; rispose che non era necessario, avrebbe cenato di lì a poco. Mia moglie, arrivati in città, chiese dove abitasse; lei rispose «Lasciatemi pure al distributore, sulla strada statale». Ci scambiammo gli indirizzi e il numero di telefono. Doris volle sapere le nostre date di nascita e domandò se qualcuno, a casa, ci stesse aspettando.

La rividi l’anno scorso, qui a Cape Town. Ci aveva scritto, con largo anticipo, avvisandoci che, giunta alla soglia della pensione, si sarebbe concessa un viaggio al Capo, con il marito. Desiderava visitare il Centre for the Book, la sede staccata della National Library of South Africa. Era la frase più lunga che Doris ci avesse mai inviata, inclusi gli auguri di compleanno.

Uno scorcio del Centre for the book a Cape Town, fonte pagina Facebook

La rividi con Jacob, suo marito, lungo la Queen Victoria St, nei Company Gardens, il polmone verde del centro storico. Parlavano, tra loro, in khoi-khoi, la lingua consonantica più antica del mondo, generata schioccando la lingua contro il palato, i denti, le guance: la lingua dei Kohi-San, uno dei motivi per i quali puoi decidere, a quasi quarant’anni, di lasciare l’Europa e trasferirti qui. È, senza una melodia percepibile, un modo di parlare devocalizzato, essenziale come il deserto, come il cielo azzurro che, quel mattino, affilava la sommità della Montagna. Un logos incomprensibile.

Ci sedemmo al tavolino di un bar, in un dicembre ormai estivo, all’ombra dei Gardens. Doris e Jacob bevevano il tè centellinandolo, segmentando ogni sorso come si fa lassù, nel Great Karoo, dove l’acqua è sacra quanto le parole.

«Mi dispiace smettere di insegnare», mi confidò lei, fissandomi. «Ho voluto che ogni mio alunno avesse, in casa, almeno un libro. Un libro da leggere». Le parole sono preziose, per un popolo.

Mi confessa che, da giovane, maestra non ancora esperta, impiegò un’intera mattinata per spiegare ai bambini il colore del tramonto. Non il rosso, non l’arancione. Era diverso, il tramonto: un colore composto. Mi chiese di seguirla; il marito rimase seduto di fronte al suo tè. «Ecco, è quello. Siamo stati fortunati!», esclamò indicandomi, nel viale dei Gardens, il fiore di un Eucalyptus. «Non è solo arancione, come dicono tutti. Credo che i miei allievi lo ricordino ancora».

Foto tratta dalla pagina Facebook della National Library of South Africa

Lungo Queen Victoria St., ospitato in uno storico edificio edwardiano, si trova il Centre for the Book; missione del centro è la promozione della lettura e della scrittura, e la loro accessibilità, per tutti, quale diritto civile. Doris, al suo interno, chiese di visitare subito il Children’s Reading Centre, totalmente dedicato ai bambini. Il centro permette loro, nell’ampio auditorium, di leggere, scrivere le proprie storie ed ascoltare lettori che raccontano favole. Mi parlò a lungo, seduta di fronte ai libri, del Children’s Literature Programme, che promuove la letteratura per l’infanzia in Sudafrica. Confessò, come un segreto, quanto le parole fossero, per i bambini, importanti, vitali. Una cura contro la violenza del mondo, le asperità della vita che segnano il volto, le mani.

«La lingua che parliamo siamo noi. Nessuno può toglierla, nemmeno la morte», mi dice mentre respiriamo l’odore del legno di una libreria ottocentesca. Ci spostiamo all’interno dei Gardens, tra alberi secolari e profumo di canfora. Visitiamo assieme la South African Library: ospita un manoscritto di Dante Alighieri e provo a raccontarle di un viaggio compiuto quasi un millennio fa, tra un lago di pece nera ed una rosa immensa, candida – non bianca. Tremo all’idea di una sua richiesta di maggior precisione sull’aggettivo – non mi basterebbe, per significare quel colore, l’intero patrimonio floreale dei Company Gardens.

Doris aveva letto molte opere di autori contemporanei sudafricani; mi chiese quante ne esistessero in Europa, in Italia, e proseguimmo, senza alcun riferimento estetico comune, a parlare di Langhe e Roeri, di una città sospesa sull’acqua, di favole di Rodari e Calvino.

Si incontrarono, quel pomeriggio, la sua ragazzina San che, gettando nel cielo la cenere del fuoco, trasforma il nero della notte in una cascata di stelle, e la mia coppia che si vuole sposare ma, come spesso accade, compare il cattivo ad ostacolarla; la poesia italiana dedicata ad un pomeriggio assolato, tra serpi e cicale, e il suo racconto di un albero che funge da bara e, non appena compaiono le nuove gemme, ridona la vita. Non si parlò di inferenza, né di codifica, né di giochi narrativi combinatori.

Mentre i giardini si velavano di ombre, ci salutammo. Doris e Jacob, con il bus, sarebbero ripartiti il giorno successivo. Li immagino, ora, in viaggio attraverso le vallate pianeggianti del Nord, gli occhi semichiusi tesi oltre il finestrino. Oggi, il caos mediatico di un’elezione americana interrompe i silenzi di un pomeriggio quasi estivo; un linguaggio, abusato e distorto, prova a trasformare le realtà narrabili in prove provate, dati di fatto, o nel loro contrario. Penso a quel colore del tramonto. Esso non va mai dato per scontato, nemmeno oggi, immersi nel gioco d’azzardo di significati a noi incomprensibili.

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