In un Paese sopraffatto dall’emergenza Covid, non ha avuto il giusto risalto e approfondimento una notizia che riguarda il futuro della nostra alimentazione.

Durante il mese di ottobre nell’ Europarlamento si è svolto un aspro confronto fra i sostenitori di uno sviluppo agricolo sostenibile, come proposto dalla Commissione Europea con il programma “Farm to Fork Building Sustainable Food Systems Together“, e i tradizionali  protagonisti del PAC “Politica Agricola Comunitaria“, confronto conclusosi con la momentanea vittoria di questi ultimi.

Raccontata in questo modo può sembrare che i parlamentari europei si siano accapigliati in un semplice scontro fra due sigle. A ben vedere si è trattato invece di uno scontro titanico fra opposti interessi sul modo di gestire le risorse alimentari, sul modo con cui l’Europa intende assicurare l’alimentazione dei propri abitanti attuali e delle future generazioni. Un tema tutt’altro che trascurabile.

La PAC non è solamente la storia dell’agricoltura europea, ma soprattutto è la storia dell’Europa e della sua integrazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta le potenzialità agricole degli Stati europei, usciti devastati e affamati  dall’ultima guerra, erano insufficienti a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutti cittadini. La sopravvivenza dipendeva da massicce importazioni (fatti passare come aiuti) provenienti prevalentemente dagli Stati Uniti.

Con i Trattati di Roma (1957) i paesi fondatori della Comunità europea decidono anche una Politica Agricola Comune con il preminente obiettivo di incrementare la produttività delle colture, assicurare un equo tenore di vita alla popolazione agricola e garantire a prezzi ragionevoli la sicurezza degli approvvigionamenti di cibo per i cittadini.       

Lo strumento principalmente utilizzato è stato un sistema di forti dazi all’importazioni e di prezzi istituzionali tali da assicurare redditività ai produttori europei: prezzi ai quale gli organismi pubblici si impegnavano a ritirare dal mercato i prodotti invenduti.

Con uno scopo nobile, adeguato alla situazione economica del dopoguerra, si instaurava però un costoso e rigido apparato protettivo del comparto agricolo europeo che risulterà  poi difficile da correggere.

Già negli anni Settanta l’obiettivo di uscire dalla fame è stato raggiunto e l’Europa è definitivamente passata da una condizione di insufficienza alimentare a una strutturale sovrapproduzione. Per difendere i redditi agricoli la Comunità Europea si è così trovata a sostenere un costo notevole per supportare i prezzi e per distruggere le produzioni eccedenti, come successe per le arance di Sicilia calpestate dalle ruspe e il latte sparso nei campi.  

La spesa agricola era divenuta insostenibile raggiungendo, negli anni Ottanta, il 70% del bilancio comunitario.

A risentire negativamente di una siffatta politica è stato anche l’ambiente rurale, danneggiato da tecniche produttive sempre più impattanti, colture intensive e monocoltura, uso massiccio di fertilizzanti, standardizzazione dei processi e dei prodotti, abbandono delle zone montane.

Negli anni Ottanta iniziano i primi  tentativi di adeguamento della PAC alla nuova condizione economica del continente e al contesto internazionale che impone maggiore libertà negli interscambi commerciali. Sono del 1984 le prime restrizioni alla produzione agricola a cominciare dalle famose quote latte.

Nello stesso periodo si fa strada un nuovo modo di pensare che giungerà sino ai giorni nostri. L’opinione pubblica inizia sommessamente a prestare maggiore attenzione all’impiego delle risorse naturali e alla protezione dell’ambiente e compaiono all’inizio degli anni Novanta i primi regolamenti comunitari sull’agricoltura biologica e sulle denominazioni d’origine.

In tutti i piani elaborati rimangono consistenti i sussidi alla produttività e i tentativi di cercare una compatibilità con le esigenze dei territori vengono fortemente contestati dalle organizzazioni degli agricoltori e dai diversi governi nazionali.

Solo nell’ultimo PAC 2014-2020, pur rimanendo l’orientamento al mercato la stella polare delle scelte imprenditoriali, per la prima volta, l’ottenimento degli aiuti viene parzialmente condizionato al rispetto di una serie di requisiti ambientali. Anche questa politica viene giudicata negativamente dagli agricoltori, considerata un appesantimento degli oneri burocratici, una complicazione per l’accesso agli aiuti europei e si oppongono.

Nello scorso ottobre 2020 però la parte di mondo agricolo tradizionalmente restia al cambiamento, ancorata ai propri privilegi, si è trovata a fare i conti con una Commissione Europea molto determinata a porre la sostenibilità al centro della attività agricola.

Con il Green New Deal, di cui il Farm to Fork ne è l’espressione sul tema del cibo, cambiano gli obiettivi e la loro priorità. Produrre alimenti sani, economicamente accessibili e sostenibili, adeguare le proprie attività agricole e zootecniche alla lotta contro  i cambiamenti climatici, impegnarsi nella protezione dell’ambiente e nella preservazione  della biodiversità, assicurando infine un giusto compenso economico all’intera catena alimentare. Il mondo agricolo  dovrà sostenersi garantendoli.

Un cambio di prospettiva epocale: pone al centro l’interesse generale e non solo di una parte.

Le organizzazioni dei coltivatori con le loro potenti lobby, realizzando che l’assegnazione dei futuri finanziamenti del Recovery Fund saranno fortemente condizionati dall’accettazione del nuovo paradigma, hanno scatenato una dura e immediata opposizione.

Nell’Europarlamento i tre maggiori gruppi politici europei, il Partito popolare europeo (Ppe), i Socialisti e Democratici (S&D) e Renew Europe (Liberali), quasi sconfessando la proposta delle Von del Leyen da loro stessi sostenuta, hanno preso la loro parte stabilendo, nella seduta del 20 ottobre scorso, che  il 60%  dei fondi debba ancora sostenere il reddito degli agricoltori.

L’accordo è stato difeso dalla ministra italiana delle Politiche agricole, Teresa Bellanova, ma criticato dal Commissario europeo per l’agricoltura, Janusz Wojciechowski,  per il quale «l’accordo raggiunto è incompatibile con il Green New Deal».