Sergio Mattarella: la via della lentezza
In queste giornate schizofreniche, c’è una figura che sembra porsi al di fuori del tempo e dello spazio. Il nostro Presidente della Repubblica.
In queste giornate schizofreniche, c’è una figura che sembra porsi al di fuori del tempo e dello spazio. Il nostro Presidente della Repubblica.
In queste giornate schizofreniche, dove la seconda ondata della pandemia sta spazzando via quel minimo di serenità acquisita durante la bella stagione e un po’ tutti oscilliamo tra rabbia, incredulità e sfiducia, c’è una figura che sembra porsi al di fuori del tempo e dello spazio. Il nostro Presidente della Repubblica.
Sergio Mattarella è il protagonista di un romanzo di Calvino ritrovatosi all’improvviso in una società e in una politica pronte a cannibalizzarsi a vicenda nello spazio di un tweet. Tutto in lui sembra opporsi al contesto che lo circonda. Il tono della voce, i tempi narrativi dei suoi discorsi, una prossemica fatta di gesti leggeri, timidi sorrisi e il richiamo a valori ormai distanti anni luce dalla realtà quotidiana.
Il suo sembra un orizzonte diverso. La formazione cattolica e la militanza democristiana devono avergli insegnato a guardare oltre all’illusorio traguardo della prossima tornata elettorale. O forse sono le tragedie, quelle vere, della vita a consentirgli di viaggiare con lucido distacco sopra polemiche, richieste di impeachment, capi partito che oggi si attaccano alla giacchetta e domani ti accusano di mutismo.
D’altronde, per restare in sella a un bolide che va a 250 all’ora è fondamentale muoversi il più lentamente possibile. Parole e musica, pare, di Valentino Rossi, che però non c’entra nulla con l’argomento di questo pezzo. Anche perché non c’è niente in Mattarella che ricordi uno scavezzacollo di riviera. Piuttosto un samurai deciso a difendere la via in un’ultima onorevole battaglia. Un guerriero solitario che dosa gli interventi e sceglie le parole dei propri discorsi con la stessa cura con cui si affila la lama della katana.
Nel Presidente della Repubblica c’è qualcosa che mi affascina e che, allo stesso tempo fatico, a comprendere fino in fondo. Non so dirvi se è l’eroe di cui oggi abbiamo bisogno (e ne avremo ancor più domani) oppure una figura che tutto sommato viene accettata come il male minore. Un porto sicuro e poco costoso in tempi dove tutti navigano a vista. Forse davvero lo rieleggeranno per andare ad elezioni, oppure queste righe saranno una sorta di coccodrillo politico quando verrà sostituito da quel Draghi sul quale in tanti ripongono sogni e speranze.
C’è anche un’aura malinconica in Sergio Mattarella. La stessa che avvolge John Hammond, seduto in una sala da pranzo in penombra, mentre ripensa al vecchio circo delle pulci messo in piedi a Petticoat Lane dopo essere emigrato dalla Scozia e si illude di poter riprendere il controllo del suo parco dei dinosauri. Un po’ mi spaventa questa malinconia. Perché, se è vero che pure il presidente guarda la TV e legge i giornali, vorrei capire come le interpreta certe immagini. Cosa pensa di fronte a piazze in tumulto, dove rabbia e frustrazione sembrano farla da padrone, a scapito di idee concrete e solidarietà reale. Quali riflessioni suscita in lui questo sfilacciamento sociale sempre più evidente.
Il fatto è che qui le ipotesi sul tavolo, alla fine, sono solamente due. La prima è che il nostro Presidente della Repubblica sia uno di quei registi reduci del calcio in bianco e nero. Tipi alla Gunnar Gren, che sanno leggere i momenti del match, capiscono quando è il momento di abbassare i giri e chiudere le linee di passaggio per sopravvivere alla buriana. Non il nostro Schiaffino insomma, in grado di farci vincere la partita con un unico e accecante lampo di classe. Ma un professore di fiducia, che porta a casa i punti a suon di centinaia di brevi passaggi razionali e geometrici.
E poi c’è la seconda, che lo stesso Sergio Mattarella si senta un po’ come John Hammond. Che abbia capito già da tempo come, in fondo, il nostro sia sempre stato un circo delle pulci in grado di sostenersi solo grazie a un’illusione collettiva. Una narrazione per cui, già prima della pandemia, era impossibile nascondere l’affanno di un sistema minato alla base da burocrazie babiloniche, interessi, opportunismi vari e progettualità inesistente. Illusione che ora è stata definitivamente spazzata via.
Incrociamo le dita che la risposta esatta sia la numero uno. E che il Presidente della Repubblica, di fronte al tracollo del suo mondo, non abbia alla fine scelto di vestirsi elegante, mantenere la compostezza e continuare a suonare quelle melodie che l’hanno accompagnato per tutta una vita. Come l’orchestra del Titanic.