“Nel vedergli prendere per la prima volta quella strana rincorsa, pensavamo volesse fare il pagliaccio, che pensasse di giocarsi la carta dello spettacolo visto che non poteva avere ambizioni da medaglia”. – Giancarlo Dotto – 20 ottobre 1968, Olimpiadi di Città del Messico.
C’è la finale del salto in alto. Un paio di giorni prima, su quella stessa pista, l’8e90 di Beamon ha già spostato i confini del salto in lungo un po’ più in là.
Dick Fosbury ha 21 anni e studia ingegneria; ci sa fare con numeri e formule matematiche, anche perché non è che saltando raggiunga chissà quali risultati. E’ nato e studia in Oregon, dove 300 anni prima ci poteva arrivare solo chi aveva il fegato di lasciarsi tutto alle spalle.
Fino ad allora si è sempre saltato in due maniere, a forbice o a pancia in giù. Lui si accorge che, dando le spalle all’asta, riesce a salire più in alto. Ci unisce studi su biomeccanica e forza centrifuga, affina la tecnica e migliora il suo personale di circa 40 cm. Stacca il pass olimpico.
La federazione Usa riesce in qualche modo a mantenere segreta la sua tecnica (che comunque in passato era stata utilizzata anche da Bruce Quande) e il ragazzo arriva a giocarsi il titolo olimpico contro il connazionale Caruthers.
L’asta è a 2 metri e 24. Caruthers salta fissando il terreno, nulla da fare. Fosbury, con una scarpa diversa dall’altra, fissa il cielo e la scavalca: medaglia d’oro. Il salto in alto è appena cambiato per sempre. In capo a dieci anni ogni atleta si convertirà al “Fosbury Flop”. Ancora oggi, tutti saltano così.
Forse è tipico dei grandi inventori non riuscire a godere fino in fondo delle proprie creazioni. Con tutti gli atleti che adottano la sua tecnica, Fosbury infatti non riuscirà nemmeno a qualificarsi per le Olimpiadi di Monaco ’72. Si trasferisce in Idaho, a fare quello che gli riesce meglio: l’ingegnere. Lui non ha più volato, ma la sua è probabilmente l’unica rivoluzione d’ottobre che può dirsi riuscita in ogni suo aspetto.