La scuola, come tutti sanno, è ripartita e da allora sono già passate le due settimane “fatali” per cominciare ad avere qualche segnale sulla diffusione. Tutti si aspettano che prima o poi qualcosa succeda, che un compagno, un parente o un insegnante risulti positivo e si dia il via all’iter medico: fila, tampone, attesa e risultati. E così le scuole sembrano Fort Knox mentre in molte piazze al sabato sera l’unico virus che sembra girare è quello dello “scialla per tutti”.

Per avere un termine paragone con chi le scuole le ha già aperte dal primo settembre, abbiamo ricontattato Sara Platto (docente di Comportamento e benessere animale presso Jianghan University), direttamente da Wuhan, in Cina, dove tutto ha avuto inizio. In una intervista in diretta streaming alcuni mesi fa Sara ci aveva raccontato come era la situazione a maggio nella città cinese, come era avvenuto lo spillover dal pipistrello all’uomo, come stavano vivendo la ripresa della fase due. Da pochi giorni è uscito anche il suo ultimo libro Buongiorno Wuhan! Cronache da casa di un teenager, due gatti e We Chat durante la pandemia, edito da De Agostini, che racconta il lockdown di Sara e suo figlio Matteo alle prese con “nuovi problemi e preoccupazioni inedite a partire dalle questioni più banali…Come si procaccia il cibo in una città blindata”.

Dottoressa Platto, ci può fare una sintesi della situazione a Wuhan? Un quadro sulla ripartenza della scuole, su cosa si può fare e non?
«Diciamo subito che scaduti i 15 giorni dall’inizio, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. C’è stato un periodo di osservazione e per fortuna non ci sono stati contagi. A Wuhan e in tutta la Cina sono stati richiesti i tamponi a tutti: insegnanti, alunni, tutto il personale scolastico e genitori. Il 31 agosto abbiamo dovuto portare a scuola i risultati dei tamponi. La scuola ha poi messo in atto tutta una serie di misure di sicurezza: c’è una prima misurazione della temperatura al cancello della scuola, poi un’altra prima di entrare nell’edificio con il termoscanner. In linea di massima a Wuhan tutte le scuole sono dotate di termoscanner con le guardie che controllano. Nella scuola di mio figlio passano due volte al giorno a controllare la temperatura. In classe c’è il distanziamento ma la mascherina non è obbligatoria, perché i ragazzi sono stati “supertamponati”. A mensa sono separati da una barriera in plexiglass. Cambiando aula per le varie attività, queste vengono subito disinfettate. Ogni giorno poi la scuola invia un report all’ufficio della salute locale.»

Non si può dire che non manchino i controlli. Al momento per chi volesse venire in Cina qual è la procedura?
«Come per gli insegnanti stranieri che rientrano da altri Paesi, la normativa cinese richiede, a chi vuole entrare, di fare il tampone alla partenza non più vecchio di tre giorni. Poi devono fare la quarantena nell’hotel definito dal governo. Prima di uscire viene fatto un nuovo tampone. Siamo ormai arrivati a un punto dove la situazione è sotto controllo. Addirittura, visto che nella prima settimana di ottobre la scuola si fermerà per le vacanze dei National days, gli studenti che usciranno dalla città dovranno poi fare due settimane di quarantena.»

Quali sono ancora le restrizioni, le preoccupazioni che si avvertono a Wuhan?
«La maggior parte delle persone usa la mascherina all’esterno a meno che non si sia più isolati, allora capita di tirarla giù. Nei centri commerciali o nei mercati è obbligatoria. Quando poi entri in questi luoghi grandi devi scannerizzare il QR code, in modo che se si scopre che qualcuno è positivo si può andare a rintracciare chiunque sia stato a contatto con quella persona, per avvisarli di stare in quarantena. Questo non accade nei ristoranti o semplici negozi. A fine agosto sono andata a Pechino e anche lì ho scaricato una app apposta per il tracciamento. Ma qui nessuno ha fatto una piega. Una persona che conosco mi ha raccontato che un giorno ha preso l’autobus per andare a lavoro e poi le è arrivato un messaggio dicendole di restare a casa perché quel giorno sull’autobus c’era una persona positiva.» 


Quali sono le prospettive al momento? È probabile, in altre parole, che si ricreino casi simili?
«Non ho la sfera di cristallo. Certo è che qui a Wuhan non abbiamo avuto più un contagio da giugno. Io e mio figlio abbiamo già deciso di rifarci un tampone a ottobre così se prendiamo un raffreddore subito dopo non entriamo in panico. È indispensabile tenersi controllati per se stessi e le persone che si hanno intorno. La vita qui è ripresa, ma non è stato semplice. Le imprese hanno avuto grandi problemi economici ma hanno fatto in modo di mantenere tutti i dipendenti, diminuendo al tempo stesso lo stipendio.» 

E gli italiani a Wuhan come stanno?
«Siamo i soliti dieci e per fortuna stiamo tutti bene. So che qualcuno degli evacuati sta piano piano rientrando. Noi ci vediamo una volta al mese, circa. Siamo i survivors. Durante il lockdown è nata una bella amicizia tra tutti. Ci siamo dati una mano e tenuti su di morale.»

Qual è stata la scintilla per scrivere il suo libro, da poco uscito?
«Sono stata contattata dalla De Agostini, perché, seguendo le interviste era stata colpita dalla mia positività. Mi hanno proposto di scrivere un libro per gli adolescenti, sulla esperienza mia e di mio figlio durante il lockdown. Così è nato Buongiorno Wuhan, perché ogni mattina, appena alzata era il messaggio che inviavo alla chat dei survivors. Il libro parla anche di cosa voglia dire essere un ragazzo TCK (Third Culture Kids), nato in un Paese, la Cina, e con i genitori di culture diverse, uno italiano e l’altro americano. Quando era piccolo fece un disegno di se stesso con un cuore diviso in tre parti, con le bandiere della Cina, dell’Italia e degli USA. Si tratta di un modo di raccontare ai ragazzi italiani le cose dal punto di vista di un ragazzo internazionale. E poi c’è una parte scientifica, dove spiego ai ragazzi che cosa sono i virus, lo spillover dai pipistrelli, il Covid-19 e altro.»

In conclusione, se dovesse dare un consiglio, alla luce della tua esperienza di mamma, docente, scrittrice cosa si sentirebbe di suggerire ai ragazzi e alle loro famiglie?
«Di chiedere ai ragazzi qual è il loro sogno. Spesso, purtroppo, non prendiamo con serietà quali sono i sogni dei bambini. Dovremmo dar loro il tempo necessario per scoprire le loro passioni ed aiutarli a diventare quello che vogliono essere.»