Marina Cuollo, voce dell’handipendenza
Cambiare la narrazione sulla disabilità significa smantellare stereotipi che esistono da molto tempo. Questo uno dei tanti obiettivi di Marina Cuollo il cui slogan è chiaro: “Nothing about us without us!".
Cambiare la narrazione sulla disabilità significa smantellare stereotipi che esistono da molto tempo. Questo uno dei tanti obiettivi di Marina Cuollo il cui slogan è chiaro: “Nothing about us without us!".
Marina Cuollo è simpatia strabordante e tante altre cose. Classe 1981, napoletana nel sangue e nell’anima, dottoressa di ricerca in Biologia Molecolare all’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Scrittrice per Sperling e Kupfer, grafica, speaker radiofonica per “Radio Amore Campania”, una donna dall’ironia tenace, il cui libro A Disabilandia si Tromba è stato presentato anche a Verona nel 2017, alla libreria Libre.
In accordo con l’intervistata, si è sorvolato sul rapporto sessualità e disabilità, ormai fin troppo usato e abusato, per incentrare, invece, la nostra chiacchierata su temi che le stanno più a cuore e che mettono in luce come il diritto alla sessualità sia solamente la punta di un iceberg. C’è sempre più, infatti, la necessità e l’urgenza di partire con il cambiare modo di vedere, di raccontare contemplando in esso anche il ridere, non per banalizzare o sminuire ciò che la disabilità comporta, ma, piuttosto, per ridimensionarla, per quello che è, un accidente della vita, frutto della
contingenza, non prendendola quindi – e non prendendosi – troppo sul serio.
Perché di ciò che capita si può anche ridere con intelligenza, senza sentirsi in colpa. E questo è il contributo più incisivo e potente che Marina porta e mette in atto.
Marina, attraverso i social ti occupi di divulgazione legata ai pregiudizi e agli stereotipi sulla disabilità, su “Radio Amore” conduci una rubrica su questo tema, “Disabilandia, la voce dell’handipendenza”, da cui è nato anche il podcast. Sei quindi una persona che affronta le tematiche inerenti la disabilità con ironia che non deriva necessariamente dalla sofferenza. Tenendo presente ciò, c’è stato un evento che ti ha fatto affinare questo sguardo ironico?
«Penso che il rapporto con lo humor sia qualcosa di estremamente soggettivo. Non tutti ridiamo per le stesse cose allo stesso modo. Penso che il senso dell’umorismo sia in parte innato e molto legato al nostro carattere. A volte però i condizionamenti che riceviamo dalla società possono in qualche modo impedirci di vedere alcuni aspetti di noi stessi. Non c’è stato un vero e proprio evento a far emergere il mio sguardo ironico, ma credo che il percorso di liberazione dai condizionamenti e dall’abilismo interiorizzato mi abbia aiutato a scoprire una comicità che era già dentro di me, ma che non sapevo di avere. La lettura di autrici e autori umoristici, la visione di tanti comici e comiche sul palco, mi ha poi permesso di affinare quella propensione naturale.»
Che ruolo gioca l’ironia nel far riflettere chi ti legge o ascolta?
«Chiaramente l’ironia non è l’unica strada verso la riflessione, ce ne sono tante e altrettanto valide, ma credo che utilizzare l’umorismo per comunicare temi complessi sia una strategia vincente. L’ironia se usata bene può essere uno strumento molto potente e giocare un ruolo importante nella riflessione. Perché è come se i neuroni prendessero l’autostrada invece che la strada urbana, mentre tu sei lì che ti pieghi in due dalle risate, il tuo cervello sotto sotto ragiona, e lo fa senza che tu neanche te ne accorga. È un mezzo per alleggerire un bagaglio troppo pesante senza togliere elementi dalla valigia. Per citare Hannah Gadsby: “La risata non è la nostra medicina. Le storie sono la nostra cura. La risata è solo il miele che addolcisce l’amaro della medicina”.»
E si può ridere della disabilità?
«Sono convinta che si possa fare umorismo su tutto, ma bisogna saperlo fare, e la disabilità non è esente da questo. Semplicemente l’umorismo, come ogni tipo di comunicazione, è figlio del suo tempo, e ciò che ci faceva ridere vent’anni fa adesso non ha più lo stesso effetto. Soprattutto il fatto che per troppo tempo voci appartenenti a gruppi marginalizzati sono rimaste inascoltate, ha lasciato proliferare un umorismo molto affine alla derisione corporea. A mio avviso è giusto che l’umorismo si adegui ai cambi generazionali, che non vuol dire che di certe cose non si possa ridere, semplicemente bisogna conoscere l’argomento e interrogarsi su quale messaggio si vuole dare.»
Una delle tue battaglie riguarda il cambio di narrazione nei confronti della disabilità. A cosa si dovrebbe prestare più attenzione? Evitare e mettere, invece, in risalto?
«È importante mettersi in ascolto. Cambiare la narrazione significa smantellare stereotipi che esistono da molto tempo, e questo non possiamo farlo in un giorno. È necessario continuare a informare e spingere per un cambiamento su quei canali in grado di agire sul collettivo, come la scuola, i mass media e i prodotti audiovisivi. Per farlo però è necessario coinvolgere i diretti interessati, solo così potremo avere davvero una narrazione plurale e non stereotipata. Per citare il noto slogan: “Nothing about us without us!”.»
Uno stereotipo diffuso e una forma di abilismo poco considerata è quella intellettuale, ovvero le persone con disabilità ottengono un lavoro o avanzano nella loro posizione sociale non perché se lo siano guadagnato, maturando nel tempo competenze e strumenti adeguati, ma in virtù del loro “intenerire”. Hai avuto esperienza a riguardo?
«Questa è una convinzione abbastanza comune, e sì, ne ho fatta esperienza, soprattutto durante la mia formazione universitaria. Quando ottenevo buoni voti agli esami c’erano persone convinte che non li avessi meritati, ma che in realtà io fossi “favorita” in quanto persona con disabilità, che in qualche modo la mia disabilità intenerisse i professori. Non ti dico la rabbia! Considerando poi che sui libri ci passavo notti intere.»
Qual è il tuo punto di vista in proposito?
«C’è questa idea radicata che le persone disabili non siano in grado contribuire attivamente alla società, che non possano garantire un’adeguata produttività. Questo si riflette in diversi settori. Sono certa che molte persone con disabilità abbiano sperimentato questo pregiudizio, ed è molto frustrante. Può indurre le persone a credere di non essere mai abbastanza, di dover dare sempre di più per essere prese sul serio. È estenuante. Per questo è importante che certi stereotipi vengano smantellati.»
Un consiglio per coloro che si prendono troppo sul serio?
«Gente, la vita è troppo breve per prendersi eccessivamente sul serio!»