Partiamo subito con una premessa fondamentale: non siamo contrari al taglio dei parlamentari in maniera assoluta. Anzi, si potrebbe ritenere che – come peraltro spiegato in un passaggio nel suo articolo da Lorenzo Mori – uno Stato che aspiri ad essere moderno, come dovrebbe senz’altro fare l’Italia, possa funzionare tutto sommato bene anche con un numero inferiore di deputati e senatori rispetto ai quasi 1.000 previsti oggi dalla nostra Costituzione. Che, è bene ricordarlo ancora una volta, venne concepita, scritta e promulgata nel 1948, cioè nell’immediato Dopoguerra, pieno di ferite e conti aperti e impegnato nel non certo indolore passaggio dalla Monarchia alla Repubblica. Un passaggio che necessitava della massima rappresentatività di un popolo che allora ben più di oggi era diviso non solo da profonde differenze economiche e culturali, ma anche geografiche e infrastrutturali. E che non aveva la rappresentanza e amministrazione regionale, concepita solo alcuni anni dopo.

A dirla tutta 1.000 parlamentari (945, per la precisione) non sarebbero troppi nemmeno oggi, se ognuno di loro facesse concretamente e istituzionalmente la sua parte, ma sappiamo che purtroppo non sempre è così. Non è populismo o furia cieca contro la “Casta” che vorremmo sempre rifuggire, ma semplice constatazione dei fatti: basterebbe focalizzarsi (ma non è certamente l’unico dato) sulle effettive “presenze” in Parlamento di alcuni deputati e senatori, a cominciare da “certi” capi partito che a Roma non li si vede mai, impegnati nelle loro perenni campagne elettorali. Ragionando a mente fredda, però, se ben organizzati nelle varie Commissioni parlamentari, se animati tutti da spirito di collaborazione e senso del dovere, se portatori delle istanze locali che in Parlamento sono chiamati a rappresentare, finalizzate però anche agli interessi generali per il bene di una Nazione che aspira a un costante miglioramento e un ruolo sempre più importante sulla scena internazionale, senza al contempo lasciare indietro i propri cittadini di vecchia e nuova generazione, anche i 600 parlamentari che l’eventuale vittoria del SÌ al referendum prevederebbe dalla prossima Legislatura potrebbero fare in futuro le fortune dell’Italia.

La riforma, però, sebbene animata – si spera – dalle migliori intenzioni desta nel complesso più di qualche preoccupazione. Non è certo confidando nel buonsenso dei nostri politici che si può pensare di migliorare le cose in futuro. E allora perché andare a “limitare”, e non di poco visto che la riduzione sarebbe di circa un terzo del totale, l’azione del nostro Parlamento? Perché sul fronte del SÌ c’è chi dice che meno parlamentari porterebbero a una maggior efficienza, ma non si capisce bene quali parametri o studi rivelino o asseriscano questo. Meno teste pensanti e agenti dovrebbero risultare più efficienti? Può essere, ma non ci sono prove concrete che ciò sia vero. Il problema dell’efficienza, secondo noi, sta altrove. Fin dalla sua nascita il Parlamento è stato caratterizzato da un “Bicameralismo perfetto” che ha sempre rappresentato una garanzia importante – e in certe fasi storiche a dir poco fondamentale – per il nostro ordinamento ma anche un inevitabile ostacolo alla velocità dei processi legislativi e decisionali. Tanto che una legge che deve passare dai due rami del Parlamento e alla minima modifica apportata da uno dei due ha l’obbligo di ritornare nell’altro ramo per ricominciare l’iter approvativo non può che essere emanata in tempi che agli occhi di chi ci guarda da fuori risultano a dir poco ridicoli. È, insomma, proprio questa concezione ipergarantista che andrebbe forse ritoccata, un po’ come voleva fare la riforma di Renzi bocciata, come ricorderete, al Referendum nel 2016. Una riforma che poteva avere senz’altro dei difetti, ma che oltre a ridurre il numero dei parlamentari (riducendo il numero di senatori da 315 a 100, trasformando il Senato in organo a rinnovo parziale e continuo, con i componenti, scelti fra consiglieri regionali e sindaci) come si vuole far oggi, andava pure a modificare certi meccanismi istituzionali (puntando al “Bicameralismo differenziato”) che, quelli sì, risultavano ormai ingombranti.

E allora ci si chiede inevitabilmente perché chi a suo tempo bocciò quella riforma oggi si “stracci le vesti” per promuovere l’approvazione di questa, che di fatto prende in considerazione solo un mero e banale taglio dei parlamentari, senza ulteriori modifiche che, ai nostri occhi, risultano essenziali. Come, ad esempio, una riforma della Legge elettorale, per cercare di correggere l’inevitabile riduzione di rappresentatività che questa riforma porterà. Nuova legge elettorale che, per fortuna, è già in discussione fra le fila della maggioranza e del Governo e che, se andrà in porto, riporterà nuovamente il proporzionale puro (con sbarramento “alla tedesca” al 5%, anche se al momento le ipotesi più probabili è che questa quota, per accontentare Renzi, possa abbassarsi quantomeno al 4 se non addirittura al 3% rovinando un po’ quel senso di stabilità che uno sbarramento più alto avrebbe probabilmente garantito) come ai tempi della Prima Repubblica. Il problema però rimane, almeno fino alla prossima approvazione. Che non è per nulla scontata, anzi. Non sappiamo, peraltro, se questo ritorno al proporzionale rappresenti un bene o un male per il nostro Paese, ma di certo al momento appare come necessario in caso di approvazione (data dagli analisti per scontata) del SÌ, perché la riforma è a tutti gli effetti monca. Visto che, ad esempio, alcune regioni italiane (quelle più piccole come il Friuli-Venezia Giulia o l’Umbria) vedrebbero ridurre i propri rappresentanti in Parlamento a pochissime unità, anche se in realtà si ridurrebbero notevolmente anche i rappresentanti territoriali di tutte le regioni italiane. E siamo proprio sicuri che i benefici di questa riforma valgano i sacrifici che comporterà?

Il risparmio, chiariamolo subito, sarà esiguo. La riduzione dei parlamentari porterà a un risparmio annuo di circa 50 milioni, che per un bilancio statale di circa 900 miliardi o, ancora, in rapporto al PIL non rappresenta che pochi spiccioli. Un caffè a testa per ciascun cittadino italiano. Per carità, pur sempre qualcosa si dirà e da qualche parte bisognerà pur iniziare. Vero, non lo si mette in dubbio, ma siamo disposti a rinunciare alla nostra rappresentatività e a ridurre il potere del parlamento, svilendone da un certo punto di vista anche l’importanza (si parte da qui e si arriva chissà dove) per pochi spiccioli l’anno? Se il motivo per questa riforma era solo di tipo economico forse sarebbe stato sufficiente (si fa per dire) ridurre un po’ gli stipendi di deputati e senatori. In fondo quello del parlamentare è un impegno importante e gravoso, che andrebbe ben ricompensato se svolto nel migliore dei modi, ma in un periodo in cui tutti sono chiamati a fare dei sacrifici è bene che gli stessi parlamentari facciano, in questo senso, la loro parte rinunciando a parte del loro compenso per far risparmiare un po’ lo Stato, da una parte, e garantire la massima rappresentatività possibile, dall’altra. Siamo fermamente convinti che non tutti i costi rappresentino degli sprechi. E la rappresentatività democratica non è un concetto su cui, a nostro modesto avviso, sia giusto negoziare. Per risparmiare così poco, poi… Insomma, si taglia la rappresentanza senza alcuna compensazione, diminuendo la capacità del cittadino di indirizzare la vita politica, il tutto per qualche slogan populista anticasta e poco altro. E il bello è che a puntare il dito sul “risparmio” che porterà questa riforma sono proprio coloro che hanno varato una riforma assolutamente iniqua e totalmente populista come “Quota 100”, che sta letteralmente dissanguando le casse dello Stato senza dare una soluzione concreta ai cittadini, se non ad alcune migliaia.

Inoltre, con gli attuali regolamenti e in generale con l’attuale funzionamento del Parlamento, riducendo il numero dei parlamentari si rischia anche di “ingolfare” irrimediabilmente la già non proprio snella macchina burocratica del nostro massimo organismo. In caso di vittoria del SÌ sarebbe dunque fondamentale, prima della prossima legislatura (che è prevista, se le Camere non verranno sciolte prima, nel 2023), mettere mano a tutti i regolamenti interni al Parlamento. Il che non rappresenta esattamente un’operazione di poco conto. Per carità, si dirà, il tempo per una riforma organica in questo senso c’è, ma non siamo sicuri che questo sia un motivo sufficiente per approvare oggi una riforma che, ribadiamo, poteva fin dall’inizio prendere in considerazione tutti gli aspetti e le eventuali conseguenze e non solo il taglio dei parlamentari, senza aggiungervi correttivi di alcun genere.

Inoltre c’è un altro dato su cui riflettere: lasciando il sistema inalterato, ma riducendone solo il numero di accessi a quel sistema, la famosa “Casta” che si vuole combattere con questa riforma risulterebbe ulteriormente rafforzata, perché le nomine e le preferenze bloccate oggi sono ancora in mano alle Segreterie di partito e ai soliti baroni che ovviamente si vedrebbero confermare in Parlamento, che lascerebbe invece quasi sicuramente fuori i neofiti e i candidati “meno inseriti e immanicati”, per usare un eufemismo, che invece grazie alla loro presenza porterebbero una ventata di freschezza e rinnovamento al nostro organismo legislativo. Insomma, con soli 600 parlamentari si rischierebbe di avere sempre i soliti noti – cosa che in realtà già avviene in gran parte, ma con qualche lodevole eccezione –, invece che favorire un sano ricambio. Il SÌ al referendum non solo non sarà una svolta alla lotta contro la politica incompetente e inadeguata, ma addirittura rischia di segnarne il trionfo: con meno seggi si potranno controllare di più gli eletti, candidando solo chi obbedisce ai diktat di Partito (o chi per lui) o comunque chi non ha necessità di essere riconosciuto e apprezzato dai suoi elettori.