Un giorno apparve su Rai 3 un signore dall’abbigliamento vistoso e con un accento alsaziano. Era domenica, il 28 ottobre 2001, si parlava della Napoli borbonica, tra arte, storia e politica, e quell’uomo dalla voce vibrante inaugurava con Passepartout un nuovo modo di parlare d’arte in televisione. A quella puntata ne seguiranno molte altre, saranno nove le serie del programma, con anche delle edizioni estive, e faranno del programma un appuntamento imperdibile.

Philippe Daverio deve al mass media per eccellenza la sua popolarità, ma oltre al mezzo è sicuramente la sua abilità comunicativa a sedurre milioni di spettatori negli anni. Un pubblico che poi lo segue anche nei teatri e ne apprezza il pensiero in diversi ambiti della cultura. Quello che aveva da dire era frutto di uno studio guidato dalla passione: aveva fatto economia alla Bocconi, senza però laurearsi, ma le avanguardie del primo Novecento erano il suo amore che lo spinsero ad aprire una galleria d’arte a Milano e, un decennio dopo, un’altra a New York, sempre dedicata all’arte del XX secolo.

Ha curato mostre, collane, è stato editore, ha ricoperto anche un ruolo politico come assessore alla Cultura con la giunta Formentini. Nel 1993, inizio del suo incarico, visse la violenza della bomba piazzata dalla mafia in via Palestro, che causò la morte di tre vigili del fuoco, di un agente di polizia e di un uomo che dormiva su una panchina. Un attentato appartenente alla stagione stragista iniziata con Falcone e Borsellino, che prese di mira anche il patrimonio artistico. In quell’occasione il Padiglione di arte contemporanea all’interno di Villa Reale fu pesantemente danneggiato e Daverio si impegnò per trovare fondi e organizzare la ricostruzione.

Non è stato il primo a parlare di arte in televisione, la Rai annovera molti altri programmi già agli albori delle sue trasmissioni. Però la fatica di trasferirne i contenuti e la complessità in un mezzo di comunicazione di massa è evidente. Anche perché la tentazione di mantenere davanti alle telecamere lo stesso linguaggio che si tiene in un’aula universitaria è grande. Ed è pure controproducente. Chi resta accademico e non si pone la domanda se i contenuti possano arrivare allo spettatore oltre lo schermo, oggi ha perso.

Daverio appare mescolando elementi cinematografici – lui stesso giocava con la silhouette e l’incedere di Alfred Hitchcock –, come dei primi piani strettissimi e inquadrature insolite. Ha fatto della sua fisicità un elemento comunicativo immediato, giocando con la figura del professore-flâneur che parla tra sé ad alta voce. Il prototipo dell’europeo, anzi un esperanto umano del pensiero continentale, dalle profonde radici estese tra la Francia, la Germania e l’Italia. Eppure di spocchia ce n’era poca e quella che c’era sembrava una gag per giocare con il personaggio.

D’altronde stare in tv a trasferire continuamente un linguaggio complesso come l’arte ci vuole coraggio e inventiva, perché sai che dovrai in qualche modo tradire la verità, come accade ad ogni buon traduttore. Si deve infatti ridurre, semplificare, senza però banalizzare. Ci aveva provato con risultati magistrali il buon Federico Zeri, immenso storico dell’arte dotato altrettanto di autoironia e capacità di appassionare, anche se la sua posa era più quella della guida e del didatta. Inevitabile pensare anche a Vittorio Sgarbi, che però sta alla televisione più come politico che come intellettuale e quando divulga sui media propone una narrazione coinvolgente, ma pur sempre “d’aula”.

Nel volume Arte in tv – forme di divulgazione, edito da Johan and Levi nel 2014, Aldo Grasso categorizza le figure che si alternano sul piccolo schermo nel trattare contenuti artistici, ricordando anche altri buoni esperimenti realizzati da Antonio Paolucci o dall’artista-scrittore Emilio Tadini, ma evidenzia che oggi “per fare un programma sull’arte non basta parlare di arte, serve un racconto, il gusto per il particolare, la seduzione del narratore carismatico e competente. […] Il segreto della buona divulgazione è saper raccontare una good story, una buona storia.”

E di good stories Daverio ha riempito la televisione e le sue dissertazioni nei teatri, come durante le numerose serate organizzate dall’associazione Idem di Verona, che con lui aveva costruito un sodalizio sempre più stretto. Nel 2019 fu nominato “ambasciatore della Bellezza” dall’omonimo festival per esportare il progetto culturale anche in altri teatri fuori provincia, quali il Bibiena di Mantova, l’Olimpico di Vicenza e il Vittoriale di Gardone Riviera. Ed era atteso il 14 settembre in Arena in una serata che lo avrebbe fatto sentire a casa, dedicata a Klimt, Schönberg e Schiele.

C’è da chiedersi cosa ne sarà in futuro della divulgazione dell’arte nella tv pubblica, sempre che questa pensi di avere ancora un ruolo nell’offerta dei prossimi anni.

Se scomparsa l’arguzia, la cultura enciclopedia e trasversale, la curiosità, l’ironia garbata, il sense of humor di Daverio tutto passerà in mano a programmi fatti in serie, a presentatori schiavi del gobbo elettronico o a redazioni che faranno della cultura italiana ed europea una miscellanea per divertire. Utili per programmare un viaggio, per spingere l’arte come specchietto di un turismo superficiale e distratto. Una cosa che c’è già ed è un peccato non fare di meglio, visto che il meglio lo abbiamo anche avuto.

Nel suo ultimo editoriale per il numero di aprile di Art e Dossier, rivista storica di cui era direttore dal 2008 (la testata era stata fondata nel 1986 e aveva avuto la direzione scientifica di un gigante della storia dell’arte scomparso lo scorso 24 luglio, Maurizio Calvesi), Daverio scrive in piena stagione Covid-19:

“Speriamo di resistere e d’essere invitati anche noi alla fiesta quando l’incubo sarà passato.

E auguriamoci non troppo segretamente che dopo la figura sciocca fatta da Boris Johnson e quella gretta di Donald Trump, dopo la solidarietà di Putin che ha mandato l’esercito per una volta non a conquistare un paese ma per dare una mano alla decontaminazione, dopo il gesto di generosità dell’Albania redenta di Edi Rama che ha mandato medici e infermieri, la prossima Biennale di Venezia non sia ancora una volta l’inutile esibizione dello strapotere commerciale e irriverente degli anglosassoni. Perché il mondo dell’arte, a catastrofi concluse, si è sempre posto come generoso protagonista di un’era nuova.”

Sguardo accigliato verso un contemporaneo imprigionato, secondo lui, in una cultura schiava del mercato internazionale. Sguardo aperto verso l’era in cui l’arte torna ad essere motore di rinnovamento. Puro Èlan vital.