Flora vive in un vicolo della città vecchia, una di quelle strade con i ciottoli che sembrano portare da nessuna parte. Non si chiama così, Flora; il nomignolo gliel’ha dato anni fa il panettiere di fronte, per quel balconcino minuscolo stracolmo di piante. È un vero e proprio pontesèl, come si dice a Verona, meno di un metro quadro circondato da colonnine di pietra, più una protezione per evitare cadute che un vero balcone.

Flora non lo sa, o probabilmente non le importa, e lo ha riempito di ogni pianta possibile: nello stesso vaso crescono pomodori e azalee, il ficus nell’angolo sfiora il piano superiore e sul filo che una volta sosteneva una tenda cresce un tralcio d’uva bianca. Ogni mattina Flora riempie più volte il suo annaffiatoio verde e si prende cura delle sue piante, le uniche a cui parla dolcemente. Con una voce rugosa, di chi non la usa da troppo tempo.

È una vecchia stronza, acida e incattivita. Almeno cosi pensano i fighetti in completo nero che passano sotto le sue finestre per andare al lavoro, gli stessi che molto spesso vengono incautamente bagnati insieme alle viole mammole e ai cetrioli nei portavasi più esterni. D’altra parte, con tutta quella verzura rigogliosa, una vecchietta piccolina mica può accorgersi di chi passa sotto. Sarà proprio perché non li ha visti che al sentirli inveire scappa dentro veloce e guarda Bruttocane ridendo come una ragazzina.

Bruttocane è praticamente l’unico motivo che la spinge fuori casa, a rischiare di vedere altra gente. Si vedono spesso girare la mattina presto, estate e inverno, Flora con la sua gonna di jeans svasata sulle gambe nude e varicose e le ciabatte sfondate, Bruttocane con la pancia che sfiora il selciato e quelle orecchie bastonate da piccolo, assurdamente enormi per il suo musetto, una dritta in piedi e l’altra a puntare le tre di un ipotetico orologio.

Escono presto per non incontrare nessuno, camminano lenti sulle loro gambe arcuate, un passo dopo l’altro fanno il giro dell’isolato e tornano davanti a casa in tempo per annaffiare qualche passante in doppio petto grigio.

Non parla mai, Flora.

Da quando la sua famiglia ha smesso di esistere, non ha più nemmeno il telefono o la televisione. Vive bene con le sue piante, il suo cagnolino; non serve altro per essere felice.

Da oltre una settimana, Flora non esce più. Apre la porta al cane orrendo, che fa il suo giretto da solo, roteando la coda surreale, appartenuta forse a un danese. Tutti lasciano il portoncino socchiuso per lui, un ragionevole compromesso in cambio di un androne pulito. Flora ha il raffreddore, non si sente di uscire. Ha una brutta tosse, canina – si diceva ai suoi tempi. Sente salire la febbre e con la febbre la stanchezza. Non riesce a fare altro che stare a letto, rigirandosi di continuo tra le lenzuola bagnate. È febbraio, forse i primi di marzo, ha ormai perso il conto, eppure fa caldissimo.

Quando le sembra di affogare, di non riuscire a respirare, ripensa alle gite al lago, quando si giocava a buttarsi sotto e qualcuno l’aveva spinta troppo giù. Non riusciva a risalire, a muoversi. Alla fine qualcuno l’aveva presa. Adesso è Bruttocane che la riporta a galla, leccandole la faccia e saltando sul letto. Respirare è difficile, esce un rantolo, un gorgoglio pieno di lago.

I colpi di tosse scuotono la sua schiena curva, allunga le mani come a farsi prendere in braccio, vede uno sguardo buono sorriderle attraverso l’acqua. Poi crolla sul letto in preda al delirio, sogna persone che non ci sono più e altre che non sa chi siano, è sicura che l’ortolano sia venuto a dar da bere alle sue piante, sarà invidioso di quanto sono belli i pomodori.

Stamattina va meglio, apre gli occhi su un mondo silenzioso, pieno di luce. Sono morta, è il primo pensiero, questo è il paradiso. Poi si ricorda di aver cancellato anche dio dalla sua vita, per via di quel brutto tiro, anni fa; e poi Bruttocane le sta portando una ciabatta mordicchiata.

In paradiso non ci vanno i cani, pensa, sono ancora qui.

Ma l’aria è più pulita, non si sente alcun rumore. È strano, incredibile quanto silenzio ci sia intorno. Prepara un caffellatte solubile per lei e uno per il bastardo mangiaciabatte e guarda fuori dal suo pontesèl, il suo sguardo sul mondo. Non c’è nessuno. I negozi sono chiusi, le serrande tutte basse. Non ci sono macchine che passano, non si sente il vociare della via accanto, sempre piena di turisti. Mangia da sempre come un uccellino ma stamattina ha una gran fame. Si sente forte, come se il raffreddore l’avesse lasciata con un carico di energia. Si spalma due fette di pane vecchio con burro e marmellata e le mette in ammollo nel caffellatte.

Andiamo, bruto can, pensa, andiamo a fare un giro.

Nella zona pedonale, all’incrocio tra via Cappello e via Stella, prova un senso di vuoto assoluto. Fin dove arrivano i suoi occhi stanchi, ci sono solo pietre e porte e finestre chiuse. Non ci sono più le persone, i negozi, la fila per la tetta di Giulietta; la sensazione è di essere ancora sott’acqua, in un silenzio finto, che sa di morte ma ha un profumo buonissimo di calicanthus.

La piazza inutile senza la sua gente, una piazza bianca e vuota che riempie i polmoni di sabbia e la costringe a un doppio respiro. Ma Flora si sente benissimo, cammina leggera tra le vie antiche e deserte, sorride come non faceva da tanto tempo. Bruttocane trotterella dietro di lei mentre tornano verso casa, comincia a sentire un po’ di fame anche lui.

Qui il link del primo racconto del ciclo, “L’orizzonte di Ulisse”, di Lorenzo Mori.