Massimo Sandal, giornalista per Wired Italia, Le Scienze, Esquire Italia e, per ben dieci anni, ricercatore in biologia molecolare in Italia, Regno Unito e Germania, è autore de “La malinconia del mammut. Specie estinte e come riportarle in vita” (Il Saggiatore 2019). Un testo che, in un momento critico per l’economia e l’ambiente, ci costringe a interrogarci su scelte per nulla oziose: la conservazione della vita, l’ambiente, la salvezza stessa dell’uomo e il suo ruolo nel mondo.

Massimo Sandal

Partiamo dall’attualità. Il mondo che vive la pandemia mette come priorità la ripartenza economica rimandando, ancora una volta, le politiche di contenimento del global warming. La natura se lo può ancora permettere secondo lei? La sesta estinzione di massa è davvero alle porte?

«Questo che descrivi è esattamente l’errore che ci ha portato alla catastrofe della pandemia: pensare all’oggi ignorando le minacce del domani, pensare che possiamo procrastinare senza conseguenze. Si parlava di pandemie da decenni ma abbiamo fatto poco e male per prepararci; quando è arrivata abbiamo tardato ad agire e abbiamo visto cosa è accaduto a Bergamo e altrove. Allo stesso modo: se continuiamo a rimandare le politiche sulla crisi climatica ci aspettano scenari che faranno impallidire la crisi dovuta al Covid-19. Il problema qui non è nemmeno la sesta estinzione di massa – che non è “alle porte”, è già in corso, ai suoi inizi – è la sopravvivenza stessa della civiltà umana come la conosciamo. Le pandemie, del resto – certo il Covid-19, ma anche l’HIV/AIDS per esempio – hanno avuto e hanno la loro origine nell’interazione tra uomo e ambiente. Quelli che vediamo ora sono i primi scossoni di un terremoto che non sarà breve.»

Lo spettacolo che sta portando nei teatri, “Storie da Ediacara. Sulla terra nulla è per sempre” tratta, tra le altre cose, della storia della vita e del nostro impatto sulla Terra. In Veneto, in particolare a Verona, il vigneto sta sostituendo – insieme al cemento – ogni altro tipo di habitat o cultura, colpendo con pesticidi e sottrazione di terreno la biodiversità. Si pone urgente una domanda: questa sesta estinzione impatterà in modo incisivo sul pianeta e, quindi, sulle necessità dell’umanità?

«Probabilmente sì. Non abbiamo un’idea precisa di come e quanto, ma sappiamo che gli ecosistemi non sono sistemi lineari. Sono più simili al Ponte Morandi: possono deteriorarsi silenziosamente senza dare grossi indizi, per poi crollare miseramente in una volta. Il crollo di numerose popolazioni di insetti, ad esempio, è un sintomo cupo, perché rischia di minare alle fondamenta il funzionamento degli ecosistemi. Il che ha un senso molto concreto per noi: senza ecosistemi funzionanti non ci sono impollinatori, non c’è agricoltura, si diffondono malattie, il suolo e le acque non possono riciclare i nutrienti e diventa difficilissimo ottenere cibo a sufficienza.»

Nel suo libro afferma che una specie dura circa un milione di anni. Il genere Homo ha già percorso un tratto di questo percorso: come sfuggire a questa natura inesorabile, che rende sempre precaria l’esistenza di ogni specie? 

«Non credo nessuno abbia la risposta, ma di certo dovremmo imparare a ragionare sui tempi lunghi, oltre quelli delle nostre vite e della nostra generazione. Prendere confidenza col tempo profondo e agire oggi per cose che accadranno fra 50, 100, 100, 10.000 anni. Purtroppo, è molto difficile per gli esseri umani pensare in questi termini, eppure in qualche modo non è impossibile: una volta si iniziavano cattedrali che sarebbero state terminate secoli dopo, ora la nostra cultura non riesce a concepirlo.»

Immagine ipotetica della flora e della fauna di Ediacara

Nella narrazione dei fast food (ma non solo), per rappresentare quello che finisce negli hamburger troviamo immagini di polli liberi in natura o di mucche spensierate sui monti, quasi che sia davvero reale la mitica età dell’oro. Nel suo libro questo momento sembra coincidere con Ediacara (tra 620 e 550 milioni di anni fa) e, per certi versi, sembra quasi una memoria della vita depositata nell’inconscio collettivo, almeno nella sua lettura junghiana. Potrebbe spiegare ai nostri lettori perché questo periodo primordiale della vita è così particolare?

«Perché, a quanto ne sappiamo, fu un breve periodo all’alba dell’evoluzione degli animali in cui non c’erano predatori. Non c’erano animali che ne mangiavano altri: quasi tutti gli organismi dell’epoca, apparentemente, vivevano filtrando microrganismi dall’acqua e dal fondo marino. Un’epoca di apparente innocenza, una sorta di Eden da cui poi siamo stati buttati fuori evolvendo, nello stesso tempo, bocche capaci di divorare e cervelli capaci di sentire dolore. Non vorrei mitizzarlo troppo, non è che non ci fosse competizione tra organismi per le risorse. Ma era un mondo più pacifico, più innocente o, quantomeno, è facile leggerlo come tale.»

La locandina del film “Blade Runner”

Un altro tema del libro è la scelta di riportare in vita quello che più non vive grazie all’ingegneria genetica. È ben presente nell’immaginario cinematografico: molti film (“Moon”, “Blade Runner”…) pongono il tema delle vite artificiali umane, al punto che punto spesso il problema è come salvaguardare da loro un’umanità infiacchita. Questa prospettiva ci pone di fronte a questioni etiche non irrilevanti.

«Non seguo molto i dibattiti sul transumanesimo, ma l’idea di una “vita artificiale umana” non mi spaventa. Non so quanto sarebbe “umana”, però. L’idea di scindere mente e corpo come fossero due entità separabili è un residuo del dualismo tra corpo e anima. La mente è parte del corpo, e il corpo struttura la mente. Non vedo niente di sbagliato, in linea di principio, nel replicare una mente artificialmente (cosa da cui siamo lontanissimi) ma, se mai accadrà, anche se fosse un ‘download’ di una mente umana, quello che ne nascerà sarà diverso. Non migliore o peggiore: diverso.»

Gli esseri umani non sono strutturati per i tempi lunghi, figurarsi le ere geologiche o stellari. Un giorno la terra scomparirà, anche l’universo (a meno che non si avveri il modello del “Big Bounce”, il grande rimbalzo, al centro del film “Mr. Nobody”). Qual è allora il senso della vita e della resistenza? E l’uomo in tutto questo, secondo lei?

«Qui mi sento molto in zona ‘baci Perugina’ ma… il senso della vita è viverla, semplicemente, come riteniamo sia più giusto, per essere felici. Di più non possiamo davvero fare. E, per me, questo implica poter afferrare la meraviglia dell’universo da cui veniamo e che ci circonda, sapere che siamo parte di un immenso, inscrutabile cosmo, leggere qualcosa dei suoi meccanismi, e sentirsi parte di questa bellezza.»