Eutanasia: una storica sentenza
L'assoluzione di Cappato e Welby per aver aiutato Davide Trentini a morire in Svizzera impone una riflessione su magistratura e politica
L'assoluzione di Cappato e Welby per aver aiutato Davide Trentini a morire in Svizzera impone una riflessione su magistratura e politica
Una sentenza storica. Che forse può, chissà, davvero cambiare qualcosa nel nostro Paese, che pure non attua i principi del Common Law e quindi ogni sentenza fa ancora storia a sé, senza creare alcun precedente. Ma appare chiaro a tutti che l’assoluzione di Marco Cappato e di Mina Welby (moglie di Piergiorgio) per aver aiutato Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, a morire in Svizzera può fare comunque a suo modo giurisprudenza, anche perché i giudici della Corte d’Assise di Massa Carrara hanno esplicitamente dichiarato che «il fatto non costituisce reato». Accompagnare una persona oltre confine, in Svizzera, in una clinica specializzata per affrontare l’eutanasia, dunque – come hanno fatto Cappato e Welby con Trentini –, non è stato considerato un “aiuto al suicidio” e questa sentenza di fatto amplia il principio già stabilito nel 2019 dalla Corte Costituzionale che aveva così stabilito: «Non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Davide Trentini non aveva sostegni vitali, cioè non aveva bisogno di macchine per poter continuare a vivere. I giudici di Massa, insomma, hanno interpretato in senso più ampio rispetto a quanto fatto in precedenza l’idea di “sostegno vitale”, includendovi anche terapie farmacologiche e pratiche manuali necessarie per la sopravvivenza.
Il tema è di quelli difficilissimi da affrontare (anche per noi, non lo neghiamo). Provò a farlo a suo modo, attraverso la cinepresa, anche il regista spagnolo Alejandro Amenábar in quel meraviglioso film con protagonista Javier Barden dal titolo Mare dentro. In Italia, in passato, lo ricorderete, hanno creato grande dibattito in Italia i casi – solo per citarne alcuni – di Eluana Englaro, Dj Fabo e Piergiorgio Welby, la cui moglie Mina ha in quest’occasione affiancato Cappato, ancora una volta protagonista di una vicenda legata alla “dolce morte” (sempre nel 2017, come nel caso di Trentini, fu protagonista di una fuga con il tetraplegico Dj Fabo, sempre in Svizzera). Mina Welby, prima che morisse, promise al marito, il cui respiratore venne staccato nel 2006 (con successiva assoluzione del medico) di continuare in questa lotta a favore dell’eutanasia. Una lotta che la donna porta avanti con grande determinazione e caparbietà.
I dati, peraltro, parlano abbastanza chiaro: solo negli ultimi cinque anni si sono rivolti all’Associazione Luca Coscioni ben 900 malati, chiedendo di essere aiutati a morire. Un numero purtroppo enorme, che in qualche modo denuncia anche la grave situazione di sofferenze fisiche e psicologiche in cui versano queste persone, arrivate alla disperazione e al punto di desiderare di morire pur di porre fine al dolore. Di queste persone il 31% hanno problemi di natura psichiatrica, mentre il 69% ha gravi problemi fisici. Di questi ultimi, il 45% soffre di più patologie, il 36% di malattie neurodegenerative e il 19% di patologie oncologiche. Un dramma nel dramma, per i malati e i familiari che spesso non sanno come aiutare i loro parenti che versano in questa grave condizione. In Svizzera esistono cliniche che accompagnano verso una fine che i malati considerano più dignitosa dello stato in cui li costringe la malattia, che li priva del loro corpo e della loro mente, ma spesso sono costose e non certo accessibili a tutti. Già questo discrimine appare difficile da affrontare, ma fino all’altro giorno appariva per certi versi ancora più discriminante il fatto che, prima della sentenza della Corte di Assise di Massa, solo chi era “attaccato a una macchina” poteva, secondo il nostro ordinamento, scegliere di spegnerla, mentre chi non lo era, come appunto Trentini, quella possibilità di arrivare alla stessa “fine” non ce l’aveva. Non in Italia, almeno. Non che le cose, dopo questa sentenza, saranno ora del tutto diverse, ma è ovvio che la decisione dell’altro giorno apre uno squarcio importante, che può portare in futuro a qualche ulteriore cambiamento. Certo, in Italia, dal gennaio del 2018, è in vigore la cosiddetta legge sul testamento biologico, che prevede che nessun trattamento sanitario possa essere iniziato o proseguito senza il consenso «libero e informato» della persona interessata, che può dunque rifiutarsi anche preventivamente, anche se questo dovesse provocargli la morte. L’eutanasia attiva (quando cioè il medico somministra un farmaco che provoca la morte), il suicidio assistito (il farmaco viene assunto autonomamente) e l’aiuto al suicidio sono, invece, vietati. Quella della Corte Costituzionale del 2019 era una singola sentenza su un singolo caso, seppur molto importante. In assenza di una legge sono stati di nuovo i giudici a dover decidere sulle circostanze della morte di Davide Trentini. La Corte Costituzionale aveva chiesto al parlamento di intervenire legiferando, cosa che però non è ancora accaduta.
Il tema, si diceva, è delicato anche perché la Chiesa – seguendo i suoi principi – avversa fortemente qualsiasi passo verso l’eutanasia e spesso i politici si sono volutamente tenuti alla larga da qualsiasi presa di posizione, lasciando decidere di fatto i giudici che, quando si sono trovati di volta in volta a dover affrontare un caso di eutanasia e di aiuto da parte di qualche cittadino compassionevole, hanno quasi sempre scelto di non punire il “trasgressore”. Segno questo che la giurisprudenza ha saputo cogliere la sensibilità e le esigenze di quella parte di popolazione alle prese con queste tristissime ma sicuramente decisive vicende. Dopo, però, ormai diversi casi risolti con un “nessun colpevole”, forse a esserlo davvero, colpevole, è la nostra classe politica – tutti, nessuno escluso – incapace di prendere una decisione su un argomento che colpisce nel profondo, nell’anima e negli affetti oltre che nella dignità, così tante persone nel nostro Paese e che non può più essere lasciato senza una regolamentazione finalmente degna, chiara e in grado di guardare a tutti i possibili casi. Non è semplice trovare il giusto equilibrio, ne siamo consapevoli, soprattutto in Italia dove si cerca sempre il “cerchiobottismo”, ma non è nemmeno detto che l’equilibrio vero stia sempre nel compromesso. Una politica capace di scegliere e decidere, indipendentemente dai risultati delle prossime elezioni, è secondo il nostro punto di vista una politica davvero a servizio del cittadino. Di quelle che tutti vorrebbero nel proprio Paese.