La Tanzania (mi raccomando, accento sulla i), è un Paese ricco, e io credo di essere in grado di provarlo. La Banca Mondiale non sarebbe d’accordo visto che le classifiche basate sul PIL la vedono non certo tra le prime posizioni, ma ritengo che la maggior parte della popolazione di questa terra arsa dal sole equatoriale, che frequento assiduamente dal 2017 per lavoro, non abbia molta dimestichezza con tale concetto macroeconomico. Campano alla grande impostando il quotidiano su un concetto tanto utopico quanto vituperato: la semplicità.

La Tanzania è poco sotto l’equatore, bagnata dall’Oceano Indiano e dal Lago Vittoria, refrigerata dalle falde del Kilimanjaro (non ho mai capito cosa siano in realtà). Come un rinoceronte, il Paese sostiene il peso del Corno d’Africa e confina con innumerevoli Stati africani (guarda un po’), davvero troppi da ricordare. È nota principalmente perché ha Zanzibar, dove si va in vacanza a cinque stelle per una settimana per poter raccontare agli amici di aver condiviso le avventure di Livingston e perché ci è nato Freddie (mi raccomando, senza y).

In quanto Africa, la Tanzania ha i neri, parecchi per giunta, con un’età media drasticamente bassa a causa dell’immarcescibile pulsione a fare all’amore libero che caratterizza le Nazioni dove non devi fare un mutuo per avere una casa, unita al vizio di morire presto. Vizio, questo, sospinto principalmente dalla totale assenza di movimenti no-vax. Sempre in quanto Africa, la Tanzania ha anche leoni, giraffe, elefanti e tutto il pacchetto Safari (che in swahili significa “viaggio”). Ha anche tutto il “pacchetto dominazioni”, un tempo chiamate esplorazioni, poi diventate colonialismo, ora tramutate in “investimenti di sostegno”. Qui i Portoghesi non hanno mai lasciato tracce (di sangue) indelebili, come a Ovest, ma ci hanno pensato Tedeschi, Francesi, Spagnoli e, ultimi e maggiormente efficaci, gli Inglesi. In cambio di oro nero e oro bianco, principalmente, generazioni di “esploratori” sbiaditi hanno sfruttato al massimo queste terre, offrendo in cambio il cristianesimo, palazzi di vetro, grandi discorsi e ONG, tutte cose che male si intonano con una cultura dagli echi millenari, che solo i sultani Omaniti hanno saputo sfruttare come avvolti nel corso dei secoli, ma senza pubblicizzarlo troppo.

Vado al dunque. Cosa ha reso questa terra ricca, nel recente passato, per mezzo millennio o giù di lì? I Monsoni. Non vi è racconto marinaresco che non evochi quei venti misteriosi, costanti e puntuali, che hanno reso Zanzibar e l’intera Tanzania crocevia privilegiato e non rinunciabile per ogni scambio marittimo, commerciale o diplomatico, con partenza o destinazione l’Oriente. Nel periodo detto “The time of the two sails”, quando i Monsoni ascendenti lasciano il campo a quelli discendenti, al largo di Dar es Salaam, nelle locande di Stone Town, si sono incontrati per secoli mercanti, schiavisti, statisti, diplomatici, esploratori, (tutti in qualche modo un po’ pirati), costruendo quei futuri equilibri geopolitici d’oriente che hanno saputo resistere a due guerre mondiali. La cultura della Tanzania, la sua lingua, il suo cibo, è il frutto di quegli scambi, dei viaggi continui, delle compravendite di uomini e merci e di ogni altra attività agevolata dal soffio misterioso dei Monsoni.

Poi è arrivata la navigazione a motore, qualche legge ha proibito (sulla carta) lo schiavismo e la caccia indiscriminata, quindi Zanzibar ha perso mordente. La dominazione araba, tuttora molto influente, ha allentato le briglie, spostato il sultanato dove girano più soldini, consentendo sistemi di governo democratici. Le dominazioni sbiadite, al contempo, hanno continuato a mungere puntando la prua verso le risorse del sottosuolo, i parchi nazionali per chi ha lo zoom potente, e spiagge bianche che nemmeno i Caraibi, costruendo grattacieli sempre più alti in città dove la maggior parte delle strade sono ancora sterrate.

E poi è arrivato il 2020, che ha portato il Covid-19, con i suoi stravolgimenti, che anche qui si sono fatti sentire, senza dubbio, ma in maniera anomala. Io ho vissuto il momento, sia in Italia che da queste parti, e ho il privilegio di poter testimoniare come ciò che ha messo in ginocchio il mondo intero, in Tanzania, abbia avuto vita meno facile. I motivi sono principalmente due: l’influenza, in Paesi come la Tanzania, dove ben altre malattie prolificano incontrastate, è un virus poco diffuso, come ogni altro accidente stagionale. Qui d’inverno ci sono 20-25 gradi, i riscaldamenti non esistono e molte case, anche di prestigio, in alcuni ambienti non hanno nemmeno le finestre. Il grosso della vita sociale, poi, ha luogo nelle strade, perché in Africa non può che essere così. Non mi addentro in discorsi medici, ma è ormai abbastanza pacifico che quanto sopra non agevola la diffusione dei virus. Anche qui c’è stato il lockdown, le scuole hanno chiuso per un periodo, gli aeroporti non hanno accolto voli internazionali per oltre un mese. Poi un giorno, senza alcuna evidenza scientifica, il Presidente ha comunicato di aver sconfitto il virus con l’aiuto di Dio (uno dei numerosi che frequentano queste latitudini), il popolo gli ha creduto e ha festeggiato in piazza. Il mondo pensava che nel giro di due settimane sarebbe stato il caos, ad oggi non risultano più di quattro o cinque ricoverati negli ospedali di tutto il Paese. Ogni tanto salta fuori un positivo, che si sorprende di esserlo, mentre gli autobus (“dala dala”) sono stracolmi da scoppiare di gente, come da cartolina, ormai da diverse settimane.

Ciò che è cambiato, drasticamente, è il numero di bianchi, qui bonariamente chiamati mzungu, che si vedono in giro. Molti dei residenti, diplomatici e non, sono scappati ad ammalarsi a casa loro ma, soprattutto, i turisti latitano drasticamente, a causa delle imposizioni restrittive dei rispettivi governi. Ciò sta devastando l’intera filiera, naturalmente, con conseguenze gravi. Ma per chi? Per coloro che possono permettersi gli investimenti necessari a impiantare un resort di lusso da queste parti, che raramente hanno avuto natali Tanzani, guarda un po’. Costoro impiegavano molti locali, naturalmente, ed ecco la chiave di volta di quella differenza che ho notato, che mi ha lasciato a bocca aperta e che sto cercando di comprendere sino in fondo.

La Tanzania può apparire un Paese moderno, sotto moltissimi punti di vista. A Dar es Salaam, capitale de facto, ci sono multisala, centri commerciali, schermi piatti nei bar ecc, ma la maggior parte della popolazione vive ancora in case senza elettricità e acqua corrente, gira a piedi o in autobus e lava il vestito alla fontana. Chi di loro lavorava nel turismo ha certamente visto calare gli introiti, ma altro non ha dovuto fare che tornare alla propria vita d’origine, una vita semplice e senza pretese, come dicevo all’inizio. Nessuno di loro pretende che il governo intervenga con sussidi: “e perché mai dovrebbe?”, mi ha risposto una ragazza che parla quattro lingue, ha due lauree, e non vede uno scellino da febbraio perché non fa più da interprete ai bianchi. Nessuno di loro dà la colpa della situazione al governo ladro e, soprattutto, pensa nemmeno lontanamente di infilarsi a bordo di un barcone per andare a cercare fortuna a nord, senza visto.

La quantità di piccole attività commerciali presenti su ogni strada da queste parti, oggi come a gennaio o come cento anni fa, è spaventosa a dir poco. Non perché gli scambi siano floridi, ma perché molte famiglie vivono unicamente di ciò che riescono a racimolare vendendo la frutta del proprio giardino, barattandola con piccoli oggetti da vendere ai semafori o aggiustando i vestiti dei vicini con macchine da cucire buttate nei cestini in Inghilterra negli anni Settanta. In strada si costruiscono e vendono mobili, si cuociono mattoni, si preparano polpette di carne gustose da fare rabbia (anche il movimento vegan tarda a spopolare da ‘ste parti, chissà perché). Si tratta di un microcosmo molto caotico e multicolore che visto con gli occhi europei può dare impressione di arretratezza, ma che funziona dannatamente bene, da secoli, e che il Covid-19 non ha minimamente scalfito.  In tale mondo io, bianco come la morte, sono sempre il benvenuto, soprattutto perché lascio il resto, ma non sono in alcun modo essenziale. Ci sono? Ok. Non ci sono? akuna matata (nessun problema).

Tutto quanto sopra potrebbe essere visto, dall’alto degli standard cosiddetti occidentali, come mancanza di ambizione. Io lo chiamo, più semplicemente, saper sorridere del poco che si ha. Ecco la ricchezza di questa terra, che non a caso, scrutando i manuali di antropologia, pare abbia dato i natali alla specie umana, ceppo distaccatosi da altri primati dal DNA similare venti milioni di anni fa, giorno più giorno meno, nella savana qui dietro. La sua ricchezza coincide con la sua cultura, non intesa come insieme di nozioni, ma come stile di vita.

Molti “umani” se ne sono andati, nel corso dell’evoluzione, conquistando il resto mondo, “evolvendosi”, sbiancando ma poi, guarda un po’ i casi della vita, sono tornati col rolex, per mungere. Chi ha scelto di restare lo ha fatto perché stava bene qui, e tuttora continua a starci bene. Questo popolo ha una cultura solida; secoli di dominazioni (rectius: aiuti) l’hanno forse modificata in parte ma senza mai riuscire a scalfirne, nemmeno lontanamente, l’essenza. Un’essenza fatta di semplicità, di capacità di accontentarsi, trovando nel proprio mondo tutto il necessario per essere felici, senza alcuna invidia nei confronti di chi può permettersi l’acqua calda in casa, occhiali da sole e macchine grandi come monolocali, ossia coloro che il Covid-19 ha messo con le chiappe a terra.

Volendo concludere con un po’ di sana demagogia, elemento irrinunciabile della comunicazione moderna, ci aggiungo che ho la fortuna di aver visitato quasi tutti i paesi nella top 10 del pil mondiale. Ognuna di quelle nazioni mi ha arricchito, in qualche modo, ci mancherebbe, ma qui è un’altra cosa. È davvero tutta un’altra cosa, non una semplice vacanza come le altre (stolto chi lo pensa). 

Qui in Tanzania balla la vita, ne ho le prove.

L’autore di questo reportage, Vito Franchini, in un selfie “made in Tanzania”