Questa è un’ affermazione che sino a non poco tempo fa non sarebbe stata credibile. Rappresenta la sintesi di una recente intervista che il numero uno dell’Eni Claudio Descalzi ha rilasciato a Milano Finanza la scorsa settimana. L’amministratore delegato della più grossa e storica azienda energetica italiana, dal logo con il cane a sei zampe, è molto esplicito nelle sue intenzioni: «L’obiettivo è quello di dire addio al petrolio, questa è la strada irreversibile che abbiamo intrapreso. Ogni forma di energia che va a sostituire la componente Oil, abbattendo le emissioni, deve essere presa in considerazione, sviluppata e utilizzata. Tutte le fonti alternative sono da considerarsi integrabili, complementari […] Al 2050 Eni sarà un’impresa energetica interamente carbon neutral».

Sembra chiaro che Eni stia pensando di convertire le sue attuali strutture produttive secondo tre direttici: produzione di biocarburanti, con l’aumento della capacità di bio raffinazione di Gela e Marghera, le tecniche di cattura e stoccaggio della Co2 e la produzione di idrogeno. In Italia prevede di uscire dalla raffinazione tradizionale, dalla benzina e dal gasolio, nei prossimi 10-15 anni. Mentre si apprende che ha acquisito il 70% di Evolvere, società italiana leader nel settore della generazione elettrica distribuita proprietaria di soluzioni tecnologiche innovative, rimane ancora vaga circa il suo ruolo nel mercato del gas Metano.

È anche questo un segnale che, come il carbone, il petrolio, con tutti i suoi sottoprodotti, si appresta ad uscire di scena per lasciare il posto alle nuove forme di energia rinnovabili. Le “sette sorelle” che hanno dominato il mondo degli anni ’50 – ’80 diventeranno un ricordo.

La ferma posizione dell’Europa nel perseguire gli obiettivi del Green New Deal e, soprattutto, Next Generation EU e l’accordo su European Recovery Fund da più di 1000 miliardi di Euro, hanno dato definitivamente il via alla riconversione energetica. La credibilità del programma europeo e la grande disponibilità di denaro messa a disposizione, spingono le aziende e le istituzioni a trovare rapidamente la loro migliore collocazione nel futuro scenario energetico per non perdere opportunità di crescita.

Eni non è la sola a prendere posizione. In queste settimane si sono viste altre compagnie petrolifere apprestarsi a indicare un percorso di transizione verso un modello di business più sostenibile.

Erg ha da tempo completamente abbandonato il settore petrolifero puntando sulle rinnovabili con notevole successo economico. Shell vuole diventare il primo operatore al mondo sulle energie alternative e sulla mobilità elettrica. Total dal 2014 è diventata una utility, grazie a una serie di acquisizioni: nella generazione di energia rinnovabile, nella produzione di batterie, nella distribuzione di energia elettrica e nelle infrastrutture di ricarica autoveicoli.

Il gruppo danese Dong Energy ha diversificato le sue attività dedicandosi prevalentemente alla realizzazione di parchi eolici offshore, nel quale è diventato rapidamente leader mondiale.

Anche altre compagnie come BP ed Equinor hanno iniziato a diversificare sulle rinnovabili mentre Chevron, Conoco-Philips, Exxon-Mobil paiono più reticenti.

Si è all’inizio di una non facile transizione e, al netto delle buone intenzioni e degli annunci, le aziende sono comunque molto caute. Per loro il rischio più concreto è di continuare a costruire un sistema aziendale che poggi su risorse destinate a svalutarsi o addirittura a distruggere valore nel medio termine, con un impatto sia in termini ambientali (per chi abita questo Pianeta) che finanziari (per gli azionisti)  e trovarsi poi a non disporre di mezzi per affrontare i nuovi mercati.

Concordano con questa valutazione le recentissime decisioni di Black Rock, il gruppo di risparmio USA che gestisce oltre 6.500 miliardi di dollari. Sei mesi dopo le dichiarazioni shock contenute nella lettera agli investitori del suo Ceo Larry Fink «il rischio climatico ci obbliga a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna».  Black Rock è passato dalle parole ai fatti e nelle assemblee di 53 società, fra cui Exxon, Chevron, Daimler e Volvo, ha votato contro per mancanza di progressi nelle politiche climatiche.

E noi cittadini?

Già non incontriamo più il benzinaio che iniettava nel serbatoio dell’auto la mitica “tigre nel motore” come negli anni ’60, cancellato da tempo in un’inesorabile corsa alla riduzione dei costi di distribuzione dei carburanti. Quasi sicuramente non vedremo neppure più le stazioni di servizio auto, come le abbiamo conosciute. La mobilità sarà elettrica, le città saranno invase da colonnine di ricarica come lo erano un tempo dalle cabine telefoniche, non sentiremo più il “ringhiare” dei motori.

Dovremo affrontare anche alcuni nuovi problemi. 

Come in ogni grossa trasformazione del tessuto economico, cambierà il lavoro: molte attività cesseranno, rendendo inutilizzabili competenze e conoscenze,  mentre occorrerà formare nuove professionalità. Si pensi, per esempio, alle raffinerie, a tutta l’industria dell’auto e al loro indotto.

Cambieranno i panorami, lo Skyline delle città. L’uscita di scena del petrolio sarà possibile solo aumentando la produzione di energia eolica e fotovoltaica;  dovremo quindi abituarci a vedere molte più pale eoliche volteggiare nelle valli ventose e molti più pannelli solari ricoprire le superfici disponibili. In questo ambito sarà fondamentale il ruolo delle amministrazioni comunali nel creare le condizioni normative e procedurali affinché tutto questo possa avvenire nella massima celerità e nel pieno rispetto delle condizioni ambientali.

Il Paesc 20-30, Piano Ambientale Energia Sostenibile e Clima, dovrebbe essere il documento fondamentale per governare il cambiamento nelle città.

Non ultimo per importanza nell’ambito della nostra economia personale, come per le aziende, dovremo decidere se continuare a investire su mezzi di trasporto destinati a svalutarsi oppure tentare un salto nella “mobilità sostenibile”. Entrare in un mondo che, come dice Descalzi «sarà senza benzina».