Questa è casa mia
In questa "farsa" chiamata calcio, ci sono ancora persone vere, con una passione genuina, capaci di emozionarsi. E farci riflettere.
In questa "farsa" chiamata calcio, ci sono ancora persone vere, con una passione genuina, capaci di emozionarsi. E farci riflettere.
L’epilogo surreale di questo campionato di calcio, che non si piega al Covid ma si genuflette davanti all’ultima rata delle pay TV, permette a noi tifosi di analizzare le partite con un distacco impensabile in tempi normali; proviamo per una volta le sensazioni di un tifoso “strisciato” qualsiasi, guardando sullo schermo una squadra che amiamo da lontano. Un amico le ha definite “serate mundial” e, davvero, le impressioni sono simili. Partite viste mangiando la pizza all’aperto, in un baretto al lago; partite guardate sempre e comunque, perché – anche se non vogliamo – ci è necessario farlo. Però la gara ci interessa il giusto: ci carica se nel mezzo della noia del non-calcio appare una falena di classe pura, un tackle coraggioso o un goal come gli ultimi di Lazovic o Faraoni.
Siamo felici se vince il migliore (cioè il Verona), ci arrabbiamo, ma poco, per le ingiustizie, ci sfiora appena quando i giocatori smettono di correre. Cose che in tempi di stadio ci avrebbero fatto saltare in aria, ora ci scorrono pigre davanti e la reazione più “estrema” è quella di chi, del gruppo, ordina un altro giro. Questa “Serie A Summer Edition” è, insomma, poco coinvolgente e pure bruttina. Rappresenta il contrario assoluto del calcio come noi tifosi lo intendiamo, un insulto a chi ha sempre messo il cuore e tanti denari nella presenza, intesa come condizione irrinunciabile, a casa e in trasferta.
Ostinandomi nella ricerca di elementi positivi, ne ho però individuato almeno uno;
il “sound of silence” permette di apprezzare il comportamento delle panchine, la gestualità e le parole degli allenatori, ci fa entrare nell’intimo del carattere, sportivo e umano, di chi gestisce la squadra.
Ho raccolto per qualche gara un elenco di richiami a salire, inviti (ordini!) ad attaccare, a “puntare”.
Ho ascoltato Ivan Juric, il gladiatore di Croazia, chiedere ancora ritmo, ancora corsa, di non rallentare mai. La recente scenetta con Antonio Conte è stata l’ultima di una serie stupenda di parole in cui si può leggere l’impostazione di gioco e di vita di un allenatore che quasi nessuno voleva, arrivato grazie a un direttore sportivo che prendeva solo insulti e pagato da un presidente che – va beh – stendiamo un pietoso calzino.
È difficile immaginare che questa stagione assurda possa stravolgere il sentimento dei tifosi, dopo gli anni dolorosi della ricostruzione, le innumerevoli uscite sbagliate e quell’approccio caciarone preso dal suo idolo laziale. Obiettivamente, però, qualcosa è cambiato. Come Jack Nicholson, il presidente gialloblù Maurizio Setti pare aver modificato il suo atteggiamento, contagiato dal mantra della veronesità, il mitico “prima de parlar, tasi”. A Verona piacciono i presidenti silenziosi, piace l’umiltà e la coerenza, si apprezzano i tanti soldi da investire e si rifiutano i giochi di potere.
Setti sta tentando, con i suoi tempi e alla sua maniera, di somigliare di più a noi tifosi; ha evidentemente lasciato spazio a chi sa fare, dato fiducia a persone di un certo valore (dopo le cantonate iniziali, pagate a caro prezzo) e ha rimesso a posto i conti della società.
A me non piace, inutile girarci intorno. Ma ho deciso molto tempo fa che il presidente della mia squadra non deve piacermi, non ci devo uscire a cena o per un caffè. Deve far girare la macchina, mettere le basi da cui il mio sogno possa prendere il volo. E questo – mannaggiammè cosa sto per scrivere – Setti da qualche tempo lo sta facendo. Bene.
Ha scelto un direttore sportivo particolare, un bel ragazzo giovane dalle dichiarazioni stringate. Arrivato al Verona con Fusco, Tony D’Amico ha preso il posto lasciato libero dal volpone, suo predecessore. Sentirlo descrivere come un lavoratore incredibile, attento alle dritte e acuto nell’osservazione, fa apparire soltanto naturale che abbia contattato uno come Juric per la panchina, una scelta subito impopolare che divise Verona tra chi avrebbe voluto romanticamente dare una chance ad Alfredo Aglietti e chi, coi piedi ben piantati per terra, sognava una stagione in cui un matto vero potesse innamorarsi di Verona quasi quanto Verona di lui. Il sogno di alcuni è diventato realtà per tutti.
E dopo l’allenatore, il “Silenzioso” diesse ha raccolto in giro per l’Europa giocatori che seguiva da tempo, che a volte giocavano poco anche nelle loro squadre. Non sapremo mai a che punto arriva lo zampino dell’allenatore e fin dove le intuizioni di D’Amico: la cosa sicura è che i due si son capiti fin dal primo giorno e hanno infilato un acquisto sconosciuto dietro l’altro, dato fiducia a ragazzini e raccolto la fiducia di grandi club per lo svezzamento di piccoli prospetti. I due erano già una squadra, ancora prima di costruirla.
Il budget di spesa del Verona 2019-2020 è stimato intorno a 5 milioni di euro, il penultimo per grandezza in Serie A; il monte ingaggi si dice sia un terzo di quello per il solo CR7. Eppure, succede una magia: gente dal nome impronunciabile (che Juric, come sentiamo nel silenzio assordante del farsacalcio, ha abbreviato) si affianca ai Duemila in un amalgama che dà gioia ai tifosi di fede scaligera.
L’altra sera, davanti al maxi schermo di un locale per Verona-Inter, la sintesi del pensiero globale: «Viene da chiedersi come un giocatore come Amrabat sia sfuggito ai club più importanti, specie a quelli inglesi».
Questa frase prova che perfino uno juventino qualcosa di calcio capisce ma anche il lavoro incredibile di scouting del nostro direttore sportivo, spinto e accompagnato dalla ferrea volontà di Juric di circondarsi di gladiatori come lui.
Ora questi campioni improbabili vengono acclamati da tutti, ricercati dai grandi club e hanno aumentato in modo esponenziale il proprio valore. Smettendo i panni del tifoso per quelli del ragioniere, la decisione di piazzare Amrabat e Rrahmani ancora a gennaio è giusta, specie con il vincolo che restassero fino alla fine di questo campionato. I molti milioni (circa 34 tra i due, contro i 4 spesi per acquistarli) serviranno da solide fondamenta su cui costruire il domani, nella speranza che D’Amico non abbia perso il tocco magico e che la sua prima conquista sia il rinnovo del contratto al suo gemello diverso.
«Questa è casa mia, ci vuole rispetto». Con queste, e altre più succose parole il nostro allenatore si è ribellato al piagnisteo di Antonio Conte, più attento alle prestazioni dell’arbitro che a quelle della sua squadra, per non dire dei suoi propri errori tecnici (Eriksen in panca è illogico). Molti giornalisti nazionali e locali vi hanno letto una rivendicazione sociale, una rivolta contro l’egemonia delle grandi squadre.
Noi, i tifosi di Verona, alle regole non scritte siamo abituati, noi al fischietto del bagnino urliamo “rigore per la Juve!”. Vediamo un allenatore instancabile, capace e testardo, che non si lascia mettere i piedi in testa; un professionista cui va ormai scomodo il trito parallelo con l’allenatore dell’Atalanta Gian Piero Gasperini, avendo di fatto portato il gioco del suo Maestro al livello successivo, se non altro per averlo liberato dalla dipendenza dalla punta. Noi l’abbiamo sempre pensato che Ivan Juric, qui, fosse a casa sua e pare semplicemente perfetto che se ne sia accorto anche lui.
Se firma Juric ci divertiremo ancora. Resta solo da inventarsi un altro giocatore come Amrabat, mio pensiero fisso a ogni partita: li guardo, gli altri, ma non ne vedo nessuno che vada bene quanto lui. La cosa bella è che non lo sceglierò io; c’è un D’Amico che ci sta già lavorando da tempo, a riflettori spenti come al solito. Sono molto curiosa di vedere il nuovo Verona, di capire le scelte della società e non vedo l’ora di tornare al mio posto, allo stadio.
Perché possono anche continuare a chiamarlo “calcio”, ma senza di noi è solo un altro, banale programma televisivo.