Musa Juwara e gli altri. Storie di salvati, e di sommersi
Per un Juwara che arriva, ci sono migliaia di dispersi lungo il tragitto che collega l'Africa agli stadi europei. Così funziona la "tratta degli schiavi" del nuovo millennio.
Per un Juwara che arriva, ci sono migliaia di dispersi lungo il tragitto che collega l'Africa agli stadi europei. Così funziona la "tratta degli schiavi" del nuovo millennio.
Ci sono storie che sono ossigeno puro. Come quella del giovane Musa Juwara. “Dal barcone al gol a San Siro” è un titolo che negli ultimi giorni ha fatto il giro di tutti i giornali, siti e social sportivi italiani. Di sicuro qualcuno ha calcato la mano, altri sono saliti sul carro del trending top, ma, in tempi grami come questi, ci accontentiamo. Una boccata d’aria fresca, prima di immergerci nel prossimo entusiasmante record di Cristiano Ronaldo.
Quella di Juwara, poi, è una vicenda che trascende la cronaca sportiva. Il percorso del giovanissimo gambiano arrivato con un barcone sulle coste della Sicilia nel 2016 e che, da lì, ha iniziato la sua ascesa fino alla Scala del calcio. Transitando anche per Verona, sponda Chievo, un paio di anni nelle giovanili e l’esordio in serie A. In questi ultimi mesi, poi, l’esplosione con la maglia del Bologna.
Se a Musa è giusto augurare il massimo delle fortune, sia in campo che fuori, altrettanto doveroso è dare voce a chi non ce l’ha fatta. Ai dispersi, ai caduti o svaniti nell’inseguimento del sogno. Lungo il tragitto che collega l’Africa agli stadi europei. I sommersi, migliaia, e i salvati, molti meno.
«In Europa ci sono circa 2mila giocatori africani professionisti. Almeno dieci volte tanti (tenendo le cifre al ribasso ndr) sono i calciatori poco più che bambini prelevati in Africa con l’illusione di poter sfondare nel dorato mondo del pallone e finiti invece per essere manodopera a basso costo nelle mani di criminali e sfruttatori». A rivelarlo, qualche anno fa in una serie di interviste, è stato l’ex nazionale del Camerun Jean-Claude Mbvoumin che, terminata la carriera, ha fondato l’associazione Foot Solidaire proprio per denunciare e bloccare questo traffico.
Il missionario del nuovo millennio non indossa un saio e non porta il crocefisso. Oggi veste completi eleganti, camicie immacolate e nel portafoglio ha un tesserino con su scritto FIFA. La salvezza non passa più attraverso il Verbo, ma sta in un contratto da firmare praticamente al buio, con le famiglie che si indebitano per decine di migliaia di euro nella speranza di assicurare un futuro ai propri figli.
«Il reclutamento di giocatori è diventato un business, un’enorme torta da spartire – prosegue Mbvoumin-. Ci sono i mediatori che lavorano sul posto e agganciano i ragazzi, quindi arrivano gli agenti Fifa, che si presentano in giacca e cravatta senza sporcarsi le mani. E poi tanti criminali, da quelli che falsificano i documenti ad altri che organizzano i viaggi, buttando nella rete dell’immigrazione clandestina anche i giovani atleti».
Sognando Beck…anzi, sognando Eto’o, Manè, i grandi club e la Champions League. Ma il sogno svanisce subito. Se di talento ne hai davvero, magari una squadra te la trovano anche. In qualche sperduto campetto di Promozione italiana, in serie B bielorussa o in giro per il sud-est asiatico. Perché i contatti coi grandi club non c’erano mai stati, oppure perché la commissione è più alta tra i dilettanti. Francia e Italia sono le principali porte d’accesso all’Europa, poi, soprattutto i ragazzi in arrivo da Nigeria, Senegal e Costa d’Avorio, vengono dirottati in Svizzera, dove avviene il vero e proprio traffico di documenti e passaporti. Da qui in poi sono merce, perfetta per il grande mercato calcistico dell’est europeo, che negli ultimi anni tira alla grande.
Tutto questo, se ti va bene. Molto più spesso, una volta arrivati sul continente, questi ragazzi non trovano nessuno ad attenderli. Niente squadra, niente dirigenti o procuratori. Abbandonati a sé stessi, a doversi reinventare una vita o a trovare un modo per tornare a casa. Quando invece va proprio male, finiscono nelle mani delle mafie locali, che li preleva direttamente in aeroporto per poi utilizzarli come manodopera in nero.
Ogni tanto le loro storie saltano fuori dall’oblio. Come quei 34 ragazzi della Costa d’Avorio che, come raccontato da Becky Harvey di Stop The Traffik qualche anno fa, dopo essere stati adescati da un procuratore con regolare licenza, sono partiti in pullmann alla volta dell’Europa. Avevano firmato quelli che dovevano essere dei contratti con diverse squadre giovanili francesi: carta straccia. Li hanno ritrovati in Mali, incatenati come schiavi a lavorare in una fabbrica di scarpe.
E la FIFA, le federazioni, il grande calcio, che fanno? Secondo Jean-Claude Mbvoumin c’è poco interesse nel voler bloccare questo traffico. Difficile dargli torto, basti guardare il gran numero di accademie e fondazioni sorte in Africa negli ultimi anni allo scopo di “formare” giovani calciatori. Le regole sono state rese più rigide, ma il problema è che questa tratta di minori è parte integrante del gigantesco traffico di migranti, ed è quasi sempre impossibile da bloccare alla fonte. Si possono controllare i club e l’applicazione delle norme, di più le federazioni non riescono a fare.
Ci sono storie che sono ossigeno puro, dicevo. Altre che invece l’aria te la strappano letteralmente via dai polmoni. Quelle di ragazzi tra i 10 e i 18 anni, Juwara sconosciuti che mai avranno una prima pagina, che arrivano a bordo di un piccolo aereo passeggeri e poi vengono gettati in mare vicino alla costa italiana. Aggrappati al salvagente e a quel sogno che li ha scaraventati tra le onde. Bussando alle porte del paradiso. Chi riesce a nuotare si salva, gli altri annegano. Solo che questo non è il paradiso, ma una marea nera che inghiotte corpi e desideri. It’s getting dark, too dark to see.
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Foto di copertina: Musa Juwara. Fonte: Bologna FC