Israele e Palestina, un futuro possibile
Una regione dai conflitti mai risolti e alla vigilia di una possibile (o forse no) annessione unilaterale
Una regione dai conflitti mai risolti e alla vigilia di una possibile (o forse no) annessione unilaterale
Torna in questi giorni sui media l’irrisolta questione tra Israele e Palestina, a causa della data dell’1 luglio che, nel piano di “Peace and Prosperity” proposto da Trump lo scorso gennaio, segnerebbe l’inizio della fase di annessione da parte israeliana di circa il 30% della West Bank palestinese.
Nell’antichità, la Palestina era ‘soltanto’ la regione geografica situata tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, una terra da sempre contesa dalle diverse dominazioni. Era abitata da popolazioni di molteplici etnie e religioni, ovviamente prevalentemente arabe, oltre agli Ebrei del Vecchio Testamento. Dal 1922 al 1947, l’area fu amministrata dal Regno Unito, fino alla risoluzione della neonata Organizzazione delle Nazioni Unite che, prendendo atto dell’intenzione inglese di rinunciare al mandato, costituì un comitato per la divisione della regione in due Stati, con precisi confini e impegnati nel ricercare un piano economico comune e nella tolleranza di ogni credo religioso e di ogni minoranza. Fu il primo di innumerevoli tentativi che nel corso degli anni si sono susseguiti, purtroppo senza arrivare mai ad un accordo definitivo.
Nell’ottobre 1948, il padre della patria Ben Gurion dichiarò l’indipendenza dello Stato di Israele, secondo i confini tracciati dall’ONU, ma il giorno successivo gli Stati Arabi dichiararono guerra, quella che ora i Palestinesi chiamano “la Catastrofe”. La vittoria di Israele, supportata militarmente dagli USA, ampliò di fatto i confini oltre quanto previsto inizialmente e provocò la distribuzione del controllo delle zone residue a paesi diversi: Gaza e il Sinai all’Egitto e la West Bank alla Giordania. Israele riconquistò poi i territori egiziani, nella guerra dei Sei Giorni (1967 e 1973).
Dal canto suo, la Lega Araba rivendicò l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come unico legittimo rappresentante dei palestinesi, ammesso all’ONU come membro osservatore nel 1974. Seguirono vent’anni di occupazione, più o meno legittima a seconda del lato politico da cui si osserva, con i palestinesi tenuti separati in enclavi terribilmente simili a campi di prigionia, totalmente dipendenti dall’estero per ogni bene primario. Il malcontento di troppi anni di repressione sfociarono, come sempre accade, nel periodo delle “intifada” (lett. ribellione), che dal 1987 furono caratterizzati dai famosi lanci di pietre ma anche da numerosi, sanguinosi attentati in tutto il mondo. Da sempre, gli osservatori internazionali considerano l’occupazione israeliana come un atto illegittimo e condannano la mancata volontà politica di risolvere. Ci sono state fasi di speranza, come gli accordi di Oslo, o le pressioni di Obama; ma ci sono anche, sempre e continuamente, lanci di razzi e accoltellamenti ai danni dei “coloni”, come vengono chiamati gli abitanti israeliani degli insediamenti in West Bank.
Si tratta, secondo l’istituto di statistica palestinese (PBCS) di 448 insediamenti, di cui 150 autorizzati dal governo israeliano, 26 avamposti considerati estensioni dei precedenti e altri 128 costruiti senza alcuna autorizzazione. A fine 2018 gli Israeliani residenti nella riva occidentale del fiume Giordano superavano i 670.000 e nel 2019 sono state autorizzate nuove costruzioni per quasi 8.500 unità abitative; nello stesso periodo, Israele ha demolito 678 strutture palestinesi, di cui 251 residenziali, e bloccato 556 licenze di costruzione palestinesi. Chi porta come tesi a favore dell’annessione formale il solito “eh va beh, non cambia niente”, visto che gli insediamenti sono già una realtà, dimentica forse che formalizzando il suolo come Israeliano, non saranno più necessari i lunghi tempi delle autorizzazioni governative e, anche se a parole la coesistenza pacifica tra le due popolazioni appare garantita, le potenze di fuoco sono talmente sbilanciate da far preoccupare seriamente tutto il mondo, sia arabo che occidentale.
Sono, infatti, di questi giorni le notizie di un litigio tra i due premier che si alterneranno alla guida della Terra di David, da anni incapace di produrre un governo che non sia basato sulle buone intenzioni. Il “prossimo premier” Gantz ha dichiarato che «la data (del primo luglio, nda) non è sacra e abbiamo altre priorità adesso» durante i colloqui con un portavoce della Casa Bianca, la cui delegazione starebbe definendo i nuovi confini di Israele, naturalmente senza contraddittorio e senza ufficialità. Netanyahu, premier attualmente in carica, ha prima zittito il collega per poi rasserenare gli animi. Il suo ministro degli esteri Ashkenazi, in seguito a una lettera di membri prominenti di forze armate, polizia e Mossad in pensione, avrebbe consigliato Bibi di non procedere a testa bassa, valutando invece tutte le opzioni.
Probabilmente la retromarcia è stata spinta anche dalla presa di posizione netta della sig.a Bachelet, funzionaria ONU per i diritti umani: «L’annessione è illegale. Punto. Sono molto preoccupata che anche una minima forma di annessione porterebbe a perdite di vite e un aumento della violenza, come sempre accade quando si costruiscono muri e si dispiegano forze di sicurezza». Una paura condivisa da più parti, con il mondo arabo che – pur non facendo mancare il supporto ai fratelli palestinesi – è meno incline a un intervento aperto, alla luce degli equilibri geopolitici recentemente raggiunti, seppur ufficiosamente, con gli Stati Uniti, e l’Europa che, ribadendo la necessità di studiare una soluzione a due Stati, ha inviato una lettera sottoscritta da 127 politici di tutti i Paesi, chiedendo di sospendere il piano di insediamento. Oltreoceano, il panorama è dominato dalla lotta alla pandemia di Covid-19 e dalla campagna per le prossime presidenziali. Si ricorderà forse come Sanders, ora escluso dalla corsa elettorale Democratica, si sia sempre dichiarato contrario alle annessioni, pur essendo di religione ebrea; a lui si è aggiunto anche il genero presidenziale Kushner che ha in questi giorni raffreddato il ritmo delle trattative, proprio per capire le profonde connessioni con tutti gli altri accordi più o meno ufficiali nel Golfo persico. Perfino Biden, il candidato Dem dichiaratamente pro-Israele, suggerisce cautela.
Ci sono poi i più diretti interessati, i paesi confinanti che temono un effetto domino per il numero di nuovi profughi da accogliere ma anche minacce alla propria identità nazionale. L’annessione manda infatti un messaggio chiaro: se Israele può tranquillamente disattendere gli accordi di Oslo, nulla impedirà che vengano “superati” anche il trattato di Wadi Araba con la Giordania e quello di Camp David con l’Egitto. Autorità giordane – riporta la testata israeliana “Haaretz” – avrebbero parlato di «inaffidabilità delle pratiche israeliane» a sottolineare la distanza oggettiva tra parole e azioni.
Impossibile dire ora se Netanyahu vorrà procedere comunque, oppure se l’annessione possa riguardare solo le zone intorno a Gerusalemme per dare un contentino ai colleghi di partito che lo accusano di “essersi arreso” pur senza incidere profondamente nei territori della West Bank. Un’apertura allo stallo arriva proprio in queste ultime ore: il premier palestinese Shtayyeh avrebbe presentato a ONU, UE, USA e Russia una controproposta al piano Trump, dichiarandosi disponibile al negoziato; si tratta probabilmente dell’unico modo per richiamare la comunità internazionale tutta a un maggior coinvolgimento, togliendo l’egemonia statunitense, non richiesta e poco disinteressata, dalla questione palestinese. La speranza è che si possa arrivare a un compromesso che tenga in debito conto le enormi disparità economiche tra le popolazioni, nella convinzione che una tolleranza pacifica – in molti casi già possibile e positivamente sperimentata – passi anche da un’equa distribuzione di risorse e opportunità.