Luca Caserta, che non voleva fare l’attore
Intervista al poliedrico artista veronese, classe 1977. Non solo teatro ma anche cinema e regia. Una lunga carriera costellata da successi e tanti progetti per il futuro.
Intervista al poliedrico artista veronese, classe 1977. Non solo teatro ma anche cinema e regia. Una lunga carriera costellata da successi e tanti progetti per il futuro.
Il curriculum del veronese Luca Caserta, classe 1977, è davvero notevole e spazia dal teatro al cinema, con un diploma in Filmmaking all’Accademia di Cinema e Televisione di Cinecittà.
Tra cortometraggi e documentari, in attesa del prossimo debutto nel lungometraggio, abbiamo incontrato il nostro concittadino in occasione dei riconoscimenti che sta ricevendo con l’ultimo lavoro realizzato con la sua casa di produzione Nuove Officine Cinematografiche.
Provieni da una famiglia di artisti che a Verona ha contribuito a dar lustro alla città anche ben al di fuori delle sue mura. Hai sentito il peso di questa responsabilità sulle tue spalle o è stato un processo naturale?
«Sinceramente no, è stato un processo del tutto spontaneo e libero. Sono nato e cresciuto in quell’ambiente, venendo coinvolto fin da bambino negli spettacoli prodotti dal Teatro Scientifico – Teatro Laboratorio sia davanti che dietro le quinte. La mia casa è sempre stata frequentata da attori, scrittori, registi, scenografi, costumisti e tante altre figure che ruotano attorno al mondo dello spettacolo e questo mi sembrava del tutto normale.
Uno dei primi ricordi che ho è quello di me vestito da clown per il set fotografico di La dispensa delle marmellate, uno spettacolo di mio padre. Avevo 4 anni. Rammento che alcune foto prevedevano che io mangiassi con le dita della marmellata di ciliegie dal barattolo, cosa che ho fatto con gusto visto. A quell’esperienza ne sono poi seguite molte altre in veste di attore, tra cui non posso dimenticare una Giulietta e Romeo in chiave moderna al Teatro Romano per l’Estate Teatrale Veronese, in cui interpretavo il prologo, e la Commedia dell’Arte, di cui mio papà era un maestro e la cui tradizione portiamo avanti tuttora. Con quello spettacolo abbiamo viaggiato in tutta Italia e in tantissimi paesi dell’Europa e del mondo, muovendoci come un vero e proprio carro di artisti insieme a mio papà, mia mamma, mia sorella Isabella e a tutti gli altri attori della compagnia.
Inoltre mio padre (e negli anni ho scoperto di essere come lui) aveva la capacità d’individuare subito se una persona fosse o meno adatta a ricoprire un determinato ruolo: non badava a mezzi termini e poteva capitare che ti lanciasse letteralmente in medias res dopo un rapido “addestramento”. È successo anche al sottoscritto più di una volta, come ad esempio quando, non mi ricordo per quale ragione, il tecnico di uno spettacolo non si era presentato: mio papà mi ha chiamato in regia poco prima della messinscena, in cinque minuti mi ha spiegato come funzionassero gli impianti, il mixer luci e audio (all’epoca c’erano ancora le cassette), come e quando fare i cambi e poi mi ha detto “Bene, hai capito. Io devo andare perché devo recitare. Ciao” ed è volato in scena. Ero ancora un bambino e, per la cronaca e per fortuna, è andato tutto a meraviglia.
A un certo punto dell’adolescenza, ricordo che, quando mio padre cercava di coinvolgermi nei suoi spettacoli, ho iniziato a ribellarmi rispondendogli “Ho un’unica certezza e cioè che non farò mai questo mestiere”. Infatti eccomi qua! Durante gli anni dell’università, però, ha cominciato a farsi strada veramente in me il richiamo verso l’arte e il mondo dello spettacolo. Ho quindi iniziato a scrivere e dirigere i miei spettacoli per il Teatro Scientifico – Teatro Laboratorio, per poi passare al mio grande amore, ossia la macchina da presa, e sono entrato a Roma all’Accademia di Cinema di Cinecittà, dove mi sono diplomato in regia e sceneggiatura cinematografica.»
Hai realizzato quella che definisci la “trilogia del doppio”, ovvero Dentro lo specchio (2011), Dal profondo (2014) e L’altra faccia della luna (2016), tre cortometraggi nei quali hai esplorato l’animo umano e la sua lotta tra il bene e il male. Questi tuoi lavori sono stati premiati in molti Festival e, spesso, vengono definiti come appartenenti al genere horror. Era questa la tua intenzione o i riferimenti che vanno da H.P. Lovercraft alle produzioni di Roger Corman erano per te solo un modo per raccontare qualcosa d’altro?
«Il cinema di genere, specialmente quello fantascientifico e quello horror, può essere un potente strumento di metafora sociale ed essere utilizzato per dire altre cose rispetto a ciò che la trama sembra apparentemente proporci. Del resto, volendo fare un paragone alto – non me ne vogliano i dantisti più duri e –, la stessa Divina Commedia, in particolare L’Inferno, è di fatto un’opera di genere horror, di cui Dante si è servito per parlare proprio sotto forma di allegoria dei mali e delle storture del suo tempo. Il mio intento con questi film era proprio questo, ossia utilizzare il genere come metafora per dire altro. Ecco, quindi, che la trama diviene a questo punto quasi un pretesto per nascondere nel sottotesto messaggi e significati più profondi, arrivando a un complesso livello di stratificazione che necessita di essere decodificato appieno per poter essere compreso. Banalizzando, è un po’ come quello che accade con il gioco delle scatole cinesi. Certo, non bisogna dimenticare che il cinema però deve coinvolgere lo spettatore ed essere quindi anche intrattenimento e non solo intellettualismo fine a se stesso e tale funzione viene svolta appunto dal dipanarsi della trama, che costituisce tuttavia il livello più superficiale della lettura: attraverso simboli nascosti nelle inquadrature, nei dialoghi e nella struttura, l’occhio attento di chi guarda può essere invece condotto ai livelli più profondi di lettura, arrivando così a cogliere e comprendere il vero significato dell’opera che avevo in mente e il messaggio di cui essa si fa portatrice.»
Hai elaborato il concetto di horror con un approccio che sembrerebbe non voler inseguire alcuna moda; hai avuto qualche riferimento specifico nella ricerca di questa indipendenza? Hai qualche autore che senti a te più affine?
«In realtà sono un consumatore onnivoro di film: quando fatto bene, il cinema mi piace tutto a prescindere dal genere. Indipendentemente dall’horror, volendo fare dei riferimenti ad autori ormai considerati classici, ti posso citare Kubrick, Hitchcock, Cronenberg, Lynch, Corman, Fellini, Miyazaki, Kurosawa, Spielberg, Tim Burton, ma anche la grande commedia italiana… Tra gli autori più recenti potrei fare il nome di Robert Eggers (il regista di The Witch e del discusso The Lighthouse), Rian Johnson, che con Cena con delitto – Knives Out ha fatto una commedia thriller noir davvero eccellente sia sul piano della scrittura che della regia, o Matteo Rovere, di cui ho apprezzato molto l’operazione sia estetica che autoriale fatta con Il primo re, recitato in protoitalico. Ribadisco, però, che guardo di tutto sia del cinema del passato che del presente, senza contare quello che vedo quotidianamente come giurato del Sunset Film Festival di Los Angeles e quindi la lista che potrei farti sarebbe davvero infinita, includendo anche molti nomi di autori meno noti ai più o, forse, del tutto sconosciuti.
Sicuramente tutto ciò l’ho interiorizzato e riemerge in maniera più o meno inconsapevole quando scrivo e dirigo, insieme anche a ciò che ho letto, vissuto, visto e in questo includo anche opere pittoriche e tutto quello che attiri la mia curiosità e stimoli la mia creatività: è come se ogni cosa entrasse a far parte di un “calderone” nascosto nelle profondità in cui la materia si mescola, rimescola, contamina per poi riemergere, spesso inaspettatamente. D’altro canto, già quando facevo teatro e anche adesso che mi dedico al cinema, ho sempre cercato di trovare e seguire un mio stile personale, provando magari a individuare nuove angolazioni con cui affrontare una tematica o raccontare una storia, ibridando i generi, evitando i cliché (che sono una delle cose che più mi irritano), lasciandomi spesso guidare da quell’istinto che viene da dentro e andando alla ricerca di una mia voce espressiva che permettesse di trasmettere la mia visione del mondo o delle cose. Questo l’ho fatto anche, come tu stesso hai notato, nell’affrontare il genere horror per la mia “trilogia del doppio”: volevo provare a stravolgerne i canoni estetici, cercare uno stile personale, uscendo dal solco già tracciato pur partendo da esso. Ne è un esempio l’idea di utilizzare molta luce in una storia come quella di Dal profondo, che canonicamente avrebbe richiesto toni più scuri: l’intento era quello di sfruttare questo elemento come metafora per suggerire che il male ci circonda, non si nasconde, è sotto i nostri occhi come, purtroppo, i fatti di cronaca ci confermano quotidianamente. Mi rendo conto che questo tipo di approccio possa spiazzare o disorientare i puristi del genere, che solitamente dal linguaggio horror si aspettano determinate caratteristiche e conferme, ma il mio scopo era proprio quello di rompere gli schemi e piegare il genere a metafora per raccontare qualcos’altro.»
Ho notato che prediligi l’utilizzo della camera a mano; è una scelta pratica, un modo di trasmettere inquietudine nello spettatore per le storie che racconti o entrambe le cose?
«Non lascio mai nulla al caso e ogni scelta stilistica è pensata e meditata. Il cinema è un linguaggio che va studiato e conosciuto accuratamente prima di poterlo mettere in pratica. Ciò non significa sopprimere l’istinto con delle rigide regole, ma piuttosto stimolarlo a dare il meglio. Ho sempre considerato la macchina da presa alla stregua di uno strumento musicale e, come quest’ultimo, per riuscire a esprimersi al meglio con essa bisogna prima imparare a farla “suonare”. Ecco quindi che ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, ogni tecnica di ripresa ha una sua specifica valenza espressiva: se decido di utilizzare un carrello o un crane, piuttosto che un treppiede o la macchina a mano, è perché tale scelta è funzionale alla storia, alla scena o allo stato d’animo di un determinato personaggio. Nel caso della macchina a spalla o camera a mano, come l’hai chiamata tu, ammetto che il tipo di resa che fornisce mi piace molto dal punto di vista estetico: ciò che mi fa optare per essa, piuttosto che per qualcos’altro, è però anche la libertà di movimento che garantisce sul set, pur mantenendo, diversamente dall’elegante (ma un po’ “distaccata”) fluidità della steadicam, un effetto di realismo che trasmette una maggiore immersione nella storia. Essa dà inoltre la possibilità di entrare in stretta connessione con i personaggi e con ciò che essi stanno vivendo. Naturalmente il suo utilizzo va dosato con cura e impiegato nelle situazioni consone. Tra l’altro saper usare bene la macchina a spalla non è affatto facile e, paradossalmente, è più complesso che utilizzare un carrello o una steadicam: è molto pesante, richiede equilibrio, coordinazione e capacità di controbilanciare i movimenti trasmessi dalle braccia.
Ci tengo a precisare che, sebbene prima delle riprese mi prepari meticolosamente ad esse, è ovvio che io non chiuda la porta al caso, che su un set cinematografico è sempre dietro l’angolo, per quanto tu possa aver pianificato e previsto tutto; bisogna essere aperti agli imprevisti, saperli cogliere e sfruttare a vantaggio del film. Lasciarsi stupire dalla verità che prende vita sulla scena sia grazie all’interpretazione degli attori sia, talvolta, a un imprevisto tecnico o logistico. Il film quasi sempre ne guadagna. Spesso molte soluzioni che sembrano del tutto naturali e funzionano benissimo nell’economia dell’opera finita sono, in realtà, l’esito di problematiche contingenti che ci si è trovati a risolvere sul set, ma arrivare alle riprese preparato ti permette anche di affrontare al meglio le incognite.»
Oltre a essere un regista, sei anche sceneggiatore, montatore e, spesso, direttore della Fotografia dei tuoi lavori; quando hai ceduto uno di questi ruoli a qualcun altro, hai “sofferto” della decisione presa? Ritieni che l’intero processo creativo debba essere totalizzante per un autore?
«Se è vero che concentrare più ruoli su di te, cosa tra l’altro molto pesante sia dal punto di vista fisico che mentale, ti permette forse di sentire il film finito come qualcosa di più “tuo” come autore, è anche vero che il cinema è un lavoro che si fa in equipe, composto da tanti ingranaggi tutti estremamente importanti. Mi piace molto stare alla macchina da presa, impostare la scena e le luci, montare il film. Sono sinceramente appassionato di ogni aspetto che riguarda la macchina cinematografica e quindi mi sono impegnato per avere una formazione tecnica e artistica completa: credo infatti che un regista debba avere una solida preparazione e conoscere nel dettaglio il workflow completo di un film, compresa la post-produzione, per poter dirigere al meglio i vari reparti e sapersi relazionare con essi. Se conosci tutti gli aspetti artistici e tecnici coinvolti nella realizzazione di un’opera cinematografica sai cosa chiedere e come chiederlo ai tuoi collaboratori e cosa aspettarti da essi.
In alcuni situazioni ho voluto però mettermi alla prova tecnicamente e artisticamente come filmmaker: è il caso, ad esempio, di L’altra faccia della Luna, sul cui set avevo sì una piccola troupe di una decina di persone, ma in cui oltre a essere sceneggiatore, regista e produttore, ho rivestito anche il ruolo di direttore della fotografia, operatore e montatore. Ho scritto la sceneggiatura insieme ad Adamo Dagradi e il film è stato girato vicino ad Avesa, sul Monte Ongarine e nel Bosco del Vajo Borago, utilizzando solo la luce naturale del sole. È stato un banco di prova per me importantissimo.
Credo comunque che questo sia un mestiere basato soprattutto su un interscambio creativo di idee e sulla collaborazione: trovare persone dotate di talento con cui si è in sintonia e comunione di pensiero non solo fa bene al film, ma arricchisce anche te stesso sia dal punto di vista artistico che tecnico. Si sta molte ore sul set, fianco a fianco, confrontandosi (a volte anche in modo più o meno acceso), sostenendosi a vicenda, lottando insieme per uno scopo e alla fine ci si trova in una grande famiglia in cui ti sembra di conoscere da sempre persone che fino a qualche giorno prima erano dei perfetti sconosciuti. Si forma una sorta di osmosi tra te e i tuoi collaboratori che contribuisce a creare un’atmosfera che si trasmette all’opera stessa. Per questo è importante trovare le giuste persone che riescano a instaurare il clima adatto alla realizzazione di una determinata opera, perché esso diventerà parte integrante dell’opera stessa. Se c’è sintonia tra i membri del cast e della troupe, tale sintonia verrà trasmessa al film e giungerà fino agli spettatori. Quindi, per rispondere alla tua domanda: no, non ho sofferto nel cedere determinati ruoli a qualcun altro, perché di quel qualcuno sapevo di potermi fidare ed ero certo che il suo apporto artistico avrebbe giovato al film. Nonostante la fatica, i sacrifici e i momenti di tensione, ho ricordi bellissimi di ogni set sul quale ho lavorato.»
La tecnologia, ormai alla portata di tutti, ha di fatto accorciato la curva di apprendimento per l’utilizzo del mezzo audiovisivo e non è raro vedere sui social dei giovani fenomeni proporre dei lavori che, fino a qualche anno fa, sarebbero stati impossibili da realizzare se non con ingenti investimenti. Il tuo curriculum, invece, racconta molto altro tra studio, gavetta e presumo sacrifici per poter produrre le tue opere; a chi si affaccia solo adesso su questo mondo, desideroso di provare a “fare cinema”, consiglieresti di perseguire la tua strada? Oggi come oggi cos’è che può fare la differenza?
«È vero, le tecnologie di oggi permettono di realizzare prodotti di altissima qualità con una spesa infinitamente inferiore rispetto a una volta. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’incredibile democratizzazione degli strumenti, permettendo a molte persone di accedere ad essi e consentendo a nuovi autori di emergere, esprimersi e far sentire la propria voce, cosa che prima probabilmente non sarebbe stata possibile. Ciò è bellissimo, ci troviamo di fronte a una sorta di nuova Nouvelle Vague, in cui con un piccola troupe e attrezzature leggere si possono realizzare opere cinematografiche di alto livello. Questo ha contribuito anche a un rinnovamento del linguaggio cinematografico, complici non solo idee fresche, ma anche attrezzature sempre più versatili. Una cosa però è rimasta invariata: non ci si sveglia registi da un giorno per l’altro, non s’impara a fare cinema dai tutorial su YouTube, che comunque possono essere utili, se ben fatti e sfruttati con cognizione di causa. Insomma, quello che intendo dire è che, come in ogni altro ambito artistico, non ci si può improvvisare. Certo, restano indispensabili l’istinto e il talento, ma il cinema è un linguaggio e, in quanto tale, va studiato, compreso, interiorizzato. Le regole vanno prima imparate per poterle fare proprie e poi, magari, infrangerle, perché conoscerle ti dà libertà. E, per impararle, bisogna andare dai maestri che il cinema lo fanno o lo hanno fatto, poiché questa rimane un’arte incentrata sulla trasmissione del sapere. Un bravo maestro ti può veramente aprire la mente e schiuderti le porte su un universo vastissimo in cui sei tu però che poi devi intraprendere il tuo cammino. In più è necessario fare esperienza sul campo, sui set, guardare, curiosare, assorbire. Una volta si diceva “andare a bottega”, perché credo che il cuore del cinema resti artigianale.
Mi stai però chiedendo di assumermi una grande responsabilità nei confronti di questi giovani, perché il mondo dello spettacolo è irto di ostacoli, estremamente difficile e competitivo. Si deve avere una salute di ferro, spirito di sacrificio, capacità di adattamento, resistenza allo stress e alla fatica fisica e mentale. Saper affrontare le avversità e non smettere mai di lottare. Di questo bisogna essere consapevoli. D’altro canto è anche un mondo meraviglioso in cui i sogni e le visioni prendono forma. Pupi Avati a lezione una volta ci ha detto “Bisogna amare molto il cinema, affinché il cinema ricambi il tuo amore”.»
Il Festival Schermi d’Amore di Verona nel 2019 ti ha scelto per curare una rassegna di cortometraggi provenienti da ogni parte del mondo, indipendentemente dal loro anno di produzione; secondo la tua esperienza, com’è la situazione per ciò che riguarda i corti e i festival dove vengono rappresentati?
«Oltre alla sezione Cortometraggi del festival “Schermi d’Amore”, mi sono occupato per alcuni anni anche della Rassegna Corti a Palazzo che si svolgeva alla Gran Guardia, organizzata dal Verona Film Festival, in più sono tuttora giurato al “Sunset Film Festival” di Los Angeles, dove ho modo di guardare molti cortometraggi, oltre che lungometraggi e documentari. Ciò, unito anche alla mia attività sul campo come filmmaker e alla partecipazione a vari Festival internazionali con i miei lavori, mi garantisce una sorta di posizione “privilegiata” sul mondo dei cortometraggi. Quello che ho riscontrato anno dopo anno è una crescita qualitativa e artistica dei film sia dal punto di vista produttivo che tecnico e autoriale. I registi che si cimentano nel linguaggio corto sono sempre più preparati e, spesso, ci si trova di fronte a dei veri e propri gioielli, come ad esempio quelli che avevo accuratamente selezionato proprio per il Festival Schermi d’Amore. Quello che dispiace è che in Italia sia ancora piuttosto radicata la mentalità che il cortometraggio sia un film minore rispetto al lungometraggio e sia visto più che altro come un passaggio intermedio nella carriera di un autore e non ufficialmente riconosciuto. Se ciò in parte è vero (il cortometraggio resta una palestra fondamentale per chiunque voglia fare questo mestiere), bisognerebbe però anche considerare questo genere di opere come veri e propri film brevi, che nulla hanno da invidiare ai lungometraggi in termini di realizzazione, se non la durata. In altre parti d’Europa e del mondo l’atteggiamento nei confronti dei corti è infatti ben diverso, tanto che per questa tipologia di film esiste un mercato sia in streaming sia con programmazione televisiva e passaggi cinematografici. Il mio Dal profondo, ad esempio, è distribuito ufficialmente con successo da alcuni anni con il titolo Out of the Depths da IndiePix Films, società statunitense con sede a New York, che ne ha acquisito i diritti per lo streaming worldwide. O, ancora, il mio documentario La fabbrica della tela è di recente entrato nel catalogo di Amazon Prime Video per il territorio statunitense e anglosassone. In Italia, a parte qualche rara eccezione, siamo purtroppo ancora molto indietro sotto questo fronte ed è un vero peccato perché ci sarebbero tantissime opere meritevoli di diffusione tanto quanto i lungometraggi. Anche qui da noi gli spazi on demand ormai non mancano, quello che manca, forse, è un cambiamento nella mentalità delle persone.
Per quanto riguarda i festival, al giorno d’oggi ce ne sono davvero moltissimi e bisogna avere il fiuto di scegliere quelli migliori e anche adatti al proprio film. Sicuramente esistono Festival più importanti di altri, ma non tutti quelli importanti sono conosciuti. Essere selezionati o addirittura vincere non è mai facile, indipendentemente da quale Festival si tratti, perché sono davvero migliaia le opere di qualità che arrivano da tutto il mondo e il fatto di iscrivere il proprio film non significa automaticamente essere selezionati per quel Festival. Nella mia esperienza mi è capitato di partecipare a Festival sia nazionali che internazionali organizzati benissimo, molto seri e di grande qualità. La partecipazione a un Festival, poi, è un’occasione meravigliosa per poter entrare in contatto con la cinematografia di altri paesi del mondo e respirarne le atmosfere, i colori, gli odori e la cultura attraverso i film di talentuosissimi filmmaker provenienti da ogni parte del globo. È un’opportunità bellissima di interscambio tecnico, artistico e umano, che ti dà la possibilità di confrontarti con diversi approcci del fare cinema e che ti arricchisce tantissimo. Si tratta di un momento di crescita professionale e personale, dal mio punto di vista, molto importante. Il Festival che mi è più rimasto dentro per questo senso di condivisione e fucina artistica è il Festival di Cannes al quale ho partecipato due volte nella sezione Short Film Corner (con Dentro lo specchio e Dal profondo).»
Dimmi chi sono, il tuo nuovo toccante lavoro uscito proprio in questi mesi, sta già dandoti diverse soddisfazioni vincendo l’”Europe Asia Festival of Cinema” e l’”Outstanding Achievement Award” al “Tagore International Film Festival in India”. Ci racconti come è nato?
«Ho scritto la sceneggiatura qualche tempo fa insieme a Elisa Bertato, che è anche l’attrice protagonista del film e la cui intensa performance ha fornito forza e spessore al personaggio. Per il soggetto ci siamo ispirati ad alcuni fatti di cronaca. Il film ruota infatti attorno al tema della violenza sulle donne, un argomento importante e purtroppo ancora molto attuale. Da questo spunto ci siamo mossi per trattare e approfondire anche altre tematiche che mi interessava indagare, ossia la memoria, la ricerca della propria identità e dignità perdute. Era mia intenzione ambientare il cortometraggio in zone metropolitane periferiche e poco conosciute, lontane dalla solita iconografia della città, e volevo fare di questo aspetto qualcosa di tematico: quei luoghi solitari, decadenti e abbandonati avrebbero dovuto essere metafora dello stato di abbandono sia mentale che fisico della protagonista.
Il film era entrato in produzione già alcuni anni fa e avrebbe dovuto costituire il capitolo conclusivo della mia “trilogia del doppio”: nella mia idea originaria, infatti, la trilogia avrebbe dovuto essere composta da film di genere diverso (un neo-noir, un horror gotico e un drammatico), ma uniti dallo stesso tema, ossia l’indagine di ciò che si cela dietro alle apparenze e nelle profondità dell’animo umano. Se ci si fa caso, infatti, tutti e tre i corti hanno un titolo che inizia con la stessa lettera: Dentro lo specchio, Dal profondo e Dimmi chi sono. A causa però di alcune vicissitudini produttive su cui non mi dilungo, Dimmi chi sono a un certo punto ha subito uno stop e ho dovuto accantonarlo. Ne ho approfittato per realizzare L’altra faccia della Luna con cui ho deciso di chiudere la trilogia. Quando poi la sceneggiatura di Dimmi chi sono ha vinto il Bando per lo sviluppo del Nuovo Imaie, grazie al quale il cortometraggio è stato in parte finanziato, ho ripreso in mano la sceneggiatura e il film si è finalmente concretizzato. Fin da subito avevamo accarezzato l’idea d’inserire la canzone Piccola stella senza cielo di Luciano Ligabue, perché si integrava perfettamente con il tessuto narrativo dell’opera. Non è stato facile, ma siamo riusciti a ottenerne i diritti per gentile concessione di Warner Music Italia, Warner Chappel Music Italiana e, ovviamente, di Ligabue, che ringrazio ancora per aver appoggiato il progetto e per la fiducia accordatami. Piccola stella senza cielo è un contributo prezioso per Dimmi chi sono, ne arricchisce indubbiamente lo spessore e ne aumenta la forza poetica.
Sono davvero contento per le soddisfazioni che il film mi sta regalando: ha ottenuto vari riconoscimenti, tra cui il premio per il Miglior Montaggio, che ho realizzato personalmente, al “Top Indie Film Awards”, dove ha ottenuto anche la nomination come Miglior Regia e Miglior Film, il premio come Miglior Cortometraggio Europeo all’”Europe Asia Festival of Cinema”, l’Outstanding Achievement Award – Film on Women al “Tagore International Film Festival” e il primo premio Gold Award al “Virgin Spring Cinefest”, oltre alla nomination come Miglior Film per i “Golden Galaxy Awards” e per il “Sun of the East Award”. Il cortometraggio è stato proiettato a Festival internazionali negli USA, in Giappone, In Indonesia, in India, in Inghilterra, in Bielorussia e in altri paesi. Questo non solo ripaga gli sforzi miei e dei miei eccellenti collaboratori, che hanno sostenuto fin da subito il film, ma mi rende felice anche e soprattutto perché l’attenzione di un vasto pubblico ha potuto essere focalizzata su tematiche così importanti e delicate.»
Hai ricevuto molti premi nella tua carriera e ora stai lavorando a un lungometraggio. Di cosa parlerà il tuo film e dove lo ambienterai? Sarà in qualche modo influenzato da quello che è successo negli ultimi mesi in tutto il mondo?
«In realtà sono al lavoro su più progetti di lungometraggio. Mi piace infatti spaziare tra i generi, cosa che facevo già per il teatro: ho scritto sia opere drammatiche che commedie, oltre a fantasy, spettacoli d’avanguardia e d’impegno civile. Ciò che mi interessa è esplorare le diverse potenzialità narrative e registiche che ogni genere possa offrire a un autore, con la possibilità di sperimentare e giocare con esse, creando anche delle contaminazioni che risultano molto interessanti e stimolanti. Al momento sto sviluppando un soggetto fantasy, uno noir e uno drammatico. Di quest’ultimo ho già pronta la sceneggiatura, che ho scritto insieme a Romina Volpi (autrice anche del soggetto): stiamo facendo un’ultima revisione e siamo alla ricerca di una casa di produzione. È una storia forte e intensa in cui crediamo molto per il messaggio di cui si fa portatrice, ma è anche una storia d’amore, rinascita e speranza. Di più, per il momento, non posso svelare, se non che non è collegata in alcun modo ai recenti fatti di cronaca relativi alla pandemia di Covid-19, ma ammetto che avrei qualche soggetto per la testa relativo a tale argomento.
Ho anche pronta la sceneggiatura di una commedia molto divertente, che attualmente è in lizza per il premio finale a un concorso nazionale. Sono poi al lavoro su tre documentari: uno è già stato girato, un altro è in fase ancora embrionale e del terzo, Mariska, sto concludendo il montaggio e la post produzione. È un film che parla della Resistenza: ha attraversato varie fasi e vicissitudini produttive, ma finalmente sembra essere arrivato al traguardo. Ci tengo molto, perché penso si tratti di un documento di memoria storica davvero importante per le nuove generazioni.»
Official website: www.lucacaserta.com
Trailer “trilogia del doppio”: https://youtu.be/2qr4NE45ASg
Trailer Dimmi chi sono: https://youtu.be/uz9Vn-rH6Hc