La comunità LGTBQI+ nella narrazione seriale
Il mese di giugno coincide con il "Pride Month". In questa occasione, parla Sebastiano Ridolfi, manager nell'ambito della comunicazione digitale, uno degli organizzatori del Verona Pride.
Il mese di giugno coincide con il "Pride Month". In questa occasione, parla Sebastiano Ridolfi, manager nell'ambito della comunicazione digitale, uno degli organizzatori del Verona Pride.
Anche se, considerato l’oblio pandemico di marzo-aprile-maggio e le temperature che insolitamente non hanno ancora raggiunto i 45 gradi all’ombra, è arrivato “finalmente “ giugno e con esso il Pride Month. Divorando, in pieno binge watching, l’ultima stagione di Queer Eye, ho ben pensato di dedicare una riflessione a quella che è la rappresentazione della comunità LGBTQI+ nei prodotti seriali.
Ero già alle prese con il mio decalogo dove avrei parlato di serie sconosciute e da recuperare come Cucumber, Banana e Tufu (tre serie in una prodotte dalla britannica Channel 4 di cui i curiosi titoli “fanno riferimento a uno studio scientifico dell’European Association of Urology sull’erezione maschile, che ha individuato una scala di durezza composta da quattro fasi tofu, banana sbucciata, banana e cetriolo”) di come Will & Grace e il personaggio di Jack McPhee in Dawson’s Creek abbiamo formato una mia certa visione e di come sicuramente mi abbiano educato ad essere una persona migliore.
Arrivata a buona parte della prima bozza del pezzo però mi sono chiesta quanto effettivamente, io – bambina e poi adolescente bionda, bianca e che vedendo Fox Mulder (The X-Files) in costumino rosso uscire dalla piscina ha intuito di essere piuttosto eterosessuale in età abbastanza precoce – davvero, che cosa potevo saperne dell’assenza di rappresentazione nel media televisivo, quando di ragazzine bianche e bionde indecise tra il bad boy di turno e il bravo ragazzo in cui identificarmi ne avevo avute dai tempi di Kelly Taylor?
Ho deciso di trasformare il pezzo in un’intervista a Sebastiano Ridolfi, manager nell’ambito della comunicazione digitale di professione e speaker radiofonico nel tempo libero; nel 2015 è stato uno degli organizzatori del Verona Pride, oltre che essere stato, negli anni, il presentatore di molti Pride italiani, per otto stagioni è stato il conduttore e creatore di Romeo in Love, il primo podcast in Italia dedicato all’approfondimento sul mondo LGBTQI+, in onda su Fuori Aula Network, la web radio dell’Università di Verona.
Nelle serie tv e nei programmi tv in generale, di oggi, la comunità LGTBQI+ é sicuramente – almeno in parte – rappresentata, cosa che in un passato abbastanza recente non lo era nella maniera più assoluta, ti faccio due domande in merito. Cosa e quanto é cambiato dagli anni Ottanta-Novanta, anche partendo dalla tua esperienza.
«Il primo cambiamento è avvenuto in realtà negli anni sessanta seguendo un po’ quella che è stata la nascita del movimento LGBTQI+ negli Stati Uniti – da Castro a San Francisco, dall’uccisione di Milk fino ai moti di Stonewall –, così la televisione ha cominciato a inserire personaggi, specialmente nelle sitcom un po’ vezzeggiativi rispetto alla mondo gay, in particolare quello maschile, ma non solo…
Questo approccio è andato avanti negli Settanta e Ottanta, ma è stato solo gli anni Novanta che con Ellen DeGeneres, che facendo coming out nella sua vita privata e contemporaneamente facendolo fare al suo personaggio nella sitcom che la vedeva protagonista, ha dato veramente una prima vera svolta alla televisione. L’evento, tra l’altro, fu preceduto da una campagna marketing importante che portò la serie ad avere un’enorme visibilità in quella puntata per poi invece essere velocemente accantonata sia dagli spettatori che dal network che la produceva (la ABC). Fu davvero una fiammata, che nonostante si sia spenta rapidamente, è rimasta come una pietra miliare nella storia della tv e ancora oggi possiamo affermare che esiste un tempo “prima e dopo Ellen”.
Nella mia esperienza, guardando quindi all’Italia, quando eravamo piccoli – io sono dell’82 – gli omosessuali, così come anche i figli dei divorziati, nelle fiction erano queste figure problematiche, rare, da aiutare oppure da sostenere, o che comunque portavano del pathos con sé, avevano sempre questo alone di tragedia che li circondava. Oggi una rappresentazione del genere, sia degli omosessuali ma anche dei figli dei divorziati, farebbe davvero ridere.»
Secondo te c’è stato un momento o una serie (ma anche un film) che ha cambiato lo status quo? Ma soprattutto è stata la società che cambiando ha portato ad un mutamento nella narrazione televisiva oppure in qualche modo i prodotti televisivi hanno leggermente anticipato i tempi influenzando un qualche cambiamento positivo nella società?
«Facendo un discorso internazionale, quindi in scala globale, se c’è una serie che ha portato un cambiamento diffuso, questa è stata senza dubbio Will & Grace. Perché? Intanto, è una serie in cui i protagonisti sono LGBTQI+, non sono quindi figure spalla, coperte dal vezzeggiativo e dal ridicolo che accompagnano le vicende del protagonista, e non sono neanche personaggi soli che hanno, ad esempio, addosso la grande tragedia del tema dell’AIDS, che aveva chiaramente caratterizzato – e ancora oggi in parte caratterizza – la narrazione gay sui media.
Will & Grace è la storia di un amore tra un uomo e una donna ma diverso, tra un avvocato gay e la sua migliore amica eterosessuale (o come si direbbe in gergo “frociarola”). Perfino Joe Biden, quando era vice presidente degli Stati Uniti, definì la serie come quella che aveva fatto di più per la comunità LGBTQI+ in termini di accelerazione dell’accettazione del gay come “ordinario”: Will e Grace ha fatto piacere e ha reso, passateci il termine orribile, “normale” la vita LGBTQI+ nelle sue caratteristiche, chiaramente esagerata e stereotipata (ma quale sitcom non lo fa per qualsiasi tipo di personaggio? NdA), però comunque rappresentativa del mondo LGBTQI+ reale (certo a New York e non a Pizzo Calabro), facendo sì che sia la comunità LGBTQI+ potesse riconoscersi ma, soprattutto, che il grande pubblico potesse apprezzare.
I media, in realtà, come la politica, vanno all’inseguimento, la società cambia prima e poi i media si adattano di conseguenza. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni con il movimento Black Lives Matter che i media stanno rincorrendo con la paura di perdere audience e fatturato. Ci sono stati alcuni momenti, però – come è successo con Ellen e Will and Grace ad esempio – in cui i media hanno preso coraggio e hanno saputo cavalcare il momento, superando quello che era il canone tradizione e facendo fare un salto in avanti al media televisivo, e forse in alcuni casi, anche anticipando i tempi.»
Tornando invece alla produzione odierna quanto, secondo te, c’è una rappresentazione reale oppure ancora troppe produzioni raccontano personaggi fortemente stereotipati?
«Parlando sia di serie TV che di cinema, è ovvio che quando si fa narrazione sui mass media si usino stereotipi, questo succede in qualsiasi tipo di racconto, senz’altro però oggi vediamo maggior diversità. Questo accade sia con serie dedicate al pubblico gay – la prima importante che mi viene a mente è Good As You, e in tempi più recenti Pose ma anche tante altre – ma soprattutto, oggi, vediamo finalmente personaggi LGBTQI+ che non vengono più caratterizzati dal proprio orientamento sessuale o genere. Oggi vediamo serie in cui il personaggio principale è parte della comunità LGBTQI+ ma non è questo il pivot della sua narrazione. Credo che questo sia uno spartiacque importante, se vogliamo uno dei punti di arrivo dell’accettazione e dell’autodeterminazione delle persone LGBT. Certamente ci sono ancora contesti in cui questa minoranza è completamente assente, ma purtroppo questa è una cosa che si vede anche rispetto a tantissime altre minoranze che vengono ignorante da certi tipi di produzione.»
Quali serie tv sono un “big no”?
«Ho proprio letto un articolo che ne parlava nei giorni scorsi, Friends – serie popolare e bellissima – nonostante qualche sottotrama in cui si accennava al mondo LGBTQI+ (l’ex moglie lesbica di Ross) in realtà non aveva nessuna diversità tra i personaggi principali. È proprio questo che critico in molte serie e film: l’assenza totale. Dico una cosa che so può essere molto criticata, perché in molti la pensano diversamente: a volte è meglio avere dei personaggi stereotipati che non averli; meglio un Malgioglio, meglio anche uno di quei personaggi che hanno cavalcato gli stereotipi senza magari mai dichiararsi o facendolo in ritardo (penso a Renato Zero, Paolo Limiti ma anche Gianna Nannini) che niente, perché questi personaggi nonostante tutte le evidenti mancanze hanno portato l’immagine delle persone queer nella comunicazione di massa e questo è sempre meglio dello zero assoluto.
Porto un esempio eclatante, Star Trek, serie storica che su alcuni temi ha decisamente precorso i temi (ad esempio ha messo una donna afroamericana sulla plancia di un’astronave pressoché alla pari degli alti ufficiali uomini e bianchi) ma rispetto alla comunità LGBTQI+ si è aperta solo in tempi recentissimi, nonostante ci siano stati tentativi nel passato da parti degli autori sono sempre stati bocciati dal network.»
Abbiamo chiuso l’intervista con una riflessione personale che probabilmente sintetizza il fuoco di tutte queste parole: «Personalmente ho fatto coming out tardi, attorno ai 25 anni, mi sono reso conto che fino a quel momento l’assenza di riferimenti nella mia vita personale e nei media di persone queer ha condizionato il modo in cui sono cresciuto. Per me i gay erano qualcosa di lontano e assente dalla nostra realtà che veniva evocato con un certo timore sia dai telegiornali che dalle serie e dai film che raccontavano questi personaggi sempre in modo molto parziale e dubbio. È stato solo in seguito, quando ho avuto i primi amici dichiarati, che per me è iniziato un processo di autodeterminazione, l’esistenza di queste persone, il riconoscerle, mi ha portato a chiedermi se stavo vivendo la vita che gli altri si aspettavano da me o quella che davvero volevo vivere. Questo è stato possibile solo grazie alla presenza di persone LGBTQI+ nella mia vita, la domanda è: se avessi avuto dei riferimenti mediatici, magari durante l’adolescenza, avrei avuto la possibilità di fare queste riflessioni molto prima?».
Per concludere su consiglio di Sebastiano, invito per un approfondimento sul tema a vedere la docuserie Visible: Out on Television disponibile su Apple TV+ anche nel nostro Paese.