Il primo giugno 2020, in una giornata di sole, alle soglie dell’inverno australe – la stagione in cui i colori del cielo e della terra, in Sudafrica, brillano di immensa bellezza – Cape Town vive con timido entusiasmo il passaggio alla fase tre del lockdown, una dimensione intermedia tra lo stadio cinque (iniziale, sinonimo di assoluta gravità) e lo stadio numero uno, che sancisce il ritorno alla vita libera.

Dopo due mesi di esistenza blindata, immersi in un oceano virtuale, affacciati agli oblò digitali dai quali abbiamo osservato il mondo ammalarsi, morire e inventarsi nuove prospettive, questa notizia suona come una lieta novella. È, questa transizione, l’approdo ad una terra promessa, la rinascita a vita nuova: tornano alla consueta attività molte aziende commerciali, alcune società di servizi e le classi finali della scuola primaria e secondaria, ma restano chiusi i centri culturali, gli auditorium, i teatri, i musei.

Permangono, obbligatori, l’utilizzo della mascherina e l’osservanza di regole sociali che attengono alla distanza tra le persone, agli accessi igienizzati dei centri commerciali e dei negozi. Possiamo uscire di casa solo per compiere esercizio fisico, per acquistare merci o farmaci; il coprifuoco notturno, per ora, è stato revocato. L’anima culturale della nazione, la sua musica e i suoi festival dovranno attendere ancora un po’ di tempo, in quanto non si tratta di servizi essenziali.

Non ci sono state critiche, in tal senso, ma i sudafricani mordono il freno e non vedono l’ora che le strade tornino ad essere il palcoscenico per giovani che suonano, dipingono o eseguono passi di performing art: questa terra, oggi, vorrebbe tornare ad essere tutto ciò che, nei precedenti sessanta giorni, non le è stato concesso, ciò che la gente non ha vissuto ma solo immaginato.

La nazione a questo ulteriore passo verso la libertà ha risposto in modo corale: possiamo di nuovo acquistare prodotti che non siano solo di prima necessità ma non siamo ancora fuori pericolo e, in base alle previsioni statistiche, il cammino per sentirsi davvero liberi sarà lungo – i confini restano chiusi, gli aeroporti accolgono solo pochi voli domestici, i ristoranti non aprono al pubblico.

È un coro ridotto, quello che sorride alla fase tre; non assomiglia, ancora, ad un sinfonico inno alla gioia, imponente e liberatorio. È un urlo sussurrato, compresso dal timore latente di una sconfitta. Alcuni hot spot, le zone del paese caratterizzate da un’alta progressione dei contagi, potrebbero essere nuovamente declassati allo stadio quattro, o retrocessi addirittura allo stadio cinque; tra essi ci sono Cape Town, Johannesburg e un distretto dell’Eastern Cape.

Alcune ospiti provenienti da Wuhan poste in quarantena al Ranch Resort a Polokwane, capoluogo della provincia del Limpopo, foto GCIS

Sarebbe questa un’ipotesi inquietante, degna di un film sconsigliato ai deboli di cuore. I numerosi ospedali – simbolo, in questa città, delle frontiere più avanzate della chirurgia dei trapianti – restano in allerta; nel caso in cui la dannata curva epidemiologica si impennasse all’improvviso, l’avveniristico Cape Town International Convention Centre, in downtown, ha allestito camere attrezzate da adibire a strutture di degenza.

Il pensiero corre, la sera, agli abitanti delle immense township che bordeggiano le metropoli e alle aree rurali periferiche, spesso prive di adeguato supporto sanitario e sociale. Su di esse, in questi due mesi, si sono concentrati i maggiori sforzi di prevenzione e assistenza. La vulnerabilità di questi distretti è indiscutibile e, ogni giorno, si assiste all’invio di ulteriori operatori sanitari e viene incentivata la distribuzione di cibo e medicinali, la fornitura di coperte per difendersi dall’inverno imminente.

Il Sudafrica, con il cuore rivolto ai più deboli, attende la fine di un periodo che ha il sapore di una battaglia sul campo, un conflitto nel quale il virus, grande animale feroce, dominatore incontrastato di questa terra sin dai tempi dell’esplosione dell’Hiv, sia finalmente sotto controllo o diventi una specie in via di estinzione. Le strade, pattugliate dalle forze dell’ordine e da mezzi militari, iniziano lentamente a ripopolarsi di persone in abiti civili; una ragazza scende da un’auto portando con sé la custodia di una chitarra, i capelli che cadono ribelli sulle spalle e l’andatura spedita di chi, a vent’anni, è immune alle intemperanze della vita.

I quartieri tornano ad assomigliare a mappe topografiche e perdono quel sentore di silenzio immacolato che, fino a pochi giorni fa, ci faceva pensare all’oceano e al deserto insieme. La notte, nelle ultime settimane – mentre, in preda ad un’isterica fame onnivora di notizie, stavamo appesi ai nostri device digitali, apparecchi privi di confini e fusi orari – assomigliava al giorno e, da queste parti, confondere la volta celeste stellata con l’indaco assolato di un pomeriggio è un peccato mortale.

Nella terra degli Strandloper, gli epici erranti di etnia KhoiKhoi che, refrattari alle regole ed alle dominazioni, fino al secolo XIX percorrevano liberi la West Coast sudafricana in cerca di cibo e di cacciagione, questo timido ritorno alla vita assomiglia ad un presagio benevolo. «Uniti ce la faremo», ci ripetiamo ogni giorno, immaginandoci, per un attimo, sulla soglia della fase numero uno e liberi di camminare senza il peso delle restrizioni. Appena possibile, proveremo anche noi ad errare lungo la distesa di sabbia bianca, ammirando, oltre la baia, il profilo scuro di Table Mountain. E solo allora, davanti all’oceano color smeraldo, sarà per tutti un inno alla gioia, un coro così potente da esorcizzare il male e i suoi ricordi.