«C’era una volta un sogno che oggi non c’è più». Questa la frase sulla locandina del nuovo film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, Orso d’argento per la migliore sceneggiatura al settantesimo festival di Berlino 2020. “Favolacce” è dall’11 maggio disponibile in streaming su Sky Primafila Premiere, TimVision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital. Rakuten Tv e Youtube.

La pellicola, che ha per protagonisti Elio Germano – vincitore dell’orso d’argento come miglior attore per un altro film italiano in concorso, Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, in cui veste i panni di Ligabue – e Barbara Chichiarelli, già nel titolo esprime l’essenza di quanto viene raccontato. Dimenticatevi re, regine, principesse e cavalieri, queste non sono favole. Sono “Favolacce”, sporche, cattive, grette, profondamente umane.

Della favola il film conserva la patina onirica con cui riveste le immagini. Un clima sospeso, lento, senza tempo, in cui tutto sembra fluttuare in un’atmosfera rarefatta. Favolistico l’espediente del manoscritto-diario, che inserisce la storia in un “racconto dei racconti”. La citazione non è casuale, l’eco alla favola dark di Garrone si sente, ma è superato e in un certo senso capovolto. Se nell’adattamento cinematografico del testo di Basile si cercava di sporcare il mondo delle favole con la realtà, in “Favolacce” il tentativo è quello di guardare al mondo reale attraverso la lente della favola, nell’illusione di abbellirlo, attraverso gli occhi dei bambini, da sempre custodi di questo mondo fatato.

La voce narrante di Max Tortora (già ne “La terra dell’abbastanza”, primo film dei fratelli D’Innocenzo), avvisa che «quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata». Così, ancora confusi da questo esordio, siamo introdotti nella vuota routine delle famiglie nel quartiere di Spinaceto, – omaggio a Nanni Moretti di Caro Diario –, quartiere residenziale della periferia romana, a sud del raccordo anulare. Qui ci sono villette a schiera con giardino, borghesi piccoli piccoli che si accontentano di un benessere scimmiottato fatto di smartphone e piscine gonfiabili. Un luogo chiuso, isolato, da cui bisogna scappare per salvarsi.

L’immagine che segue la dichiarazione della voce narrante lascia con sé un’inquietudine che si protrarrà in un crescendo nel corso della storia: telecamera fissa, salotto di una famiglia qualunque seduta sul divano intenta ad ascoltare il telegiornale, dove viene data una notizia di cronaca nera. Una giovane coppia si è suicidata, dopo aver ucciso la figlia appena nata. Nessuna reazione da parte dei membri della famiglia.

Una scena del film Favolacce

Il mondo di “Favolacce” è diviso in due: gli adulti, immobili, inutili, fatti di bassi istinti e fisicità, in una sfilata di corpi pelosi, bocche che masticano e sudore. Dall’altro lato ci sono gli sguardi lucidi, spenti e disincantati di bambini, i loro giochi, ogni tanto qualche sorriso. Corpi lisci e capelli lunghi, contaminati dai pidocchi, che vanno immediatamente estirpati con drastici tagli e poi nascosti – sia mai, una bambina con il taglio “alla maschietto”! – con una bella parrucca.

In mezzo un mondo fatto di silenzi e incomprensioni. E una ragazza troppo giovane per essere incinta, ponte tra le due generazioni e incapace di comunicare con entrambe. Una realtà senza appigli culturali, annichilita e ripiegata su se stessa, riflessa nella luce fioca di un’estata calda e appiccicosa, senza alcun soffio di vento. Senza speranza.

Sotto la lente di ingrandimento ci sono i fallimenti di una generazione, quella dei genitori “X”, spenti in un’ignoranza quasi genetica, pieni di rabbia repressa, incapaci di azioni e sentimenti. I figli, messi al mondo quasi per caso, sono solo un trofeo da mostrare ai pranzi tra vicini: figli bravi a scuola, di cui (quasi) nessuno sente il grido di aiuto. Figli che imitano i grandi, unico loro riferimento in un’età delicata come quel breve periodo indefinibile a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza.

E così ci ritroviamo sorpresi e straniti quando uno dei protagonisti, imberbe e gracile ragazzino di prima media dice: «mi va di scopare», rivolto a una coetanea che di certo non ricorda Lolita. Figli che rubano il cellulare al padre trovandovi ricerche pornografiche, senza stupirsene. Figli su cui vengono scaricate colpe e frustrazioni. Figli che sanno compiere atti più coraggiosi dei padri. Figli disillusi. Figli a cui nessuno racconta più favole.