Le polemiche sorte in relazione alla richiesta di Fiat Chrysler Automobiles (FCA) per un finanziamento con garanzia statale non sempre sono fondate sui fatti. E su questi noi intendiamo far luce, al di là dei soliti schieramenti da stadio. L’impressione è che qualcosa non torni ma anche che si punti il dito (e l’insulto) sulle questioni sbagliate.

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. L’inizio del Vangelo di Giovanni è talmente complesso che potrebbe far da incipit a qualsiasi bilancio di multinazionale. Certe strutture societarie hanno bisogno di un atto di fede, sono costruite come matrioske, con molti strati formali prima di arrivare a una bambolina vera; altre sono scatole semivuote che contemporaneamente possiedono e sono possedute da altre scatolette, in un labirinto senza fine. Ma un bilancio di questo tipo fa la magia di consolidare (parola tecnica) tutti i dati delle varie società, ripulendo debiti e crediti infragruppo e presentando una situazione complessiva. Andiamo a caccia dei fatti nel bilancio FCA 2019.

FCA non è una società italiana: VERO ma anche FALSO

FCA è un raro esempio di semplicità. La sua struttura, sfrondando entità marginali è lineare, ho fatto pure un disegnino: in principio c’era la Giovanni Agnelli BV, i cui azionisti sono i discendenti dell’omonimo storico fondatore di FIAT; questa controlla la Exor NV, considerata la vera cassaforte di famiglia, con attività di investimenti dedicata alla gestione del patrimonio; Exor è il principale azionista di FCA NV, insieme a fondi, privati e istituzionali. FCA NV è la holding creata nel 2014 quando si completò la fusione di Fiat e Chrysler e controlla al 100%, tra le altre, due sussidiarie operative in Italia e USA. La società italiana, FCA Italy spa, ha sede a Torino e di fatto è la “vecchia” Fiat, con qualche pezzo in meno (Ferrari NV fu scorporata nel 2016, per dire). Tutte le società di controllo e partecipazione sono entità di diritto olandese, quelle operative di diritto italiano e statunitense rispettivamente.

FCA è andata in Olanda perché è un paradiso fiscale: FALSO

Poco lontano da Amsterdam, sorge un’azienda specializzata nella domiciliazione di tremila società, dove transitano € 5 trilioni ogni anno. Una scelta obbligata per chi vuole trarre beneficio dalla normativa societaria del Paese: una tassazione sui dividendi più bassa che altrove (motivo che non ci riguarda, come vedremo) ma anche, e questo è il caso di FCA, il “loyalty benefit”. Un azionista con quota rilevante gode infatti di un numero proporzionale di azioni in più, che non pagano dividendi, non guadagnano niente, ma amplificano il “peso” nel Consiglio di Amministrazione. Ecco che il pacchetto di Exor in Italia varrebbe il nominale 28,66% mentre nei Paesi Bassi vale quasi il 42%, garantendo alla famiglia di esercitare un controllo praticamente assoluto sulla gestione. E no, l’Olanda non è nella lista nera dei paradisi fiscali (e neanche in quella grigia).

John Elkann

FCA paga le tasse in Olanda e non in Italia: FALSO e FALSO

FCA non è la bottega sotto casa. È un gruppo presente in oltre 40 paesi, con rapporti commerciali con 130 paesi, più di 100 stabilimenti produttivi e quasi 200.000 dipendenti, senza contare tutta la rete di vendita autonoma. È quotata in borsa a Milano e New York e, per trovare un compromesso nelle relazioni con i milioni di azionisti di tutto il mondo, FCA ha eletto come sede principale della propria attività Londra, luogo dove si tengono i CdA e si prendono tutte le decisioni. Non paga le tasse in Olanda, le paga nel Regno Unito. Se poi vogliamo spaccare il fisco in quattro, paga in UK le tasse sui dividendi ma tutte le sussidiarie nei vari paesi pagano regolari imposte allo stato di appartenenza. FCA Italy spa paga regolarmente IRES e IRAP allo Stato Italiano. Spulciando il bilancio 2019, la tassazione consolidata è pari a € 1,3 mld pari a un tax rate (cioè il peso sui ricavi) di quasi il 33%. Si può discutere sulle aliquote applicate dai vari paesi, che qui vengono “riassunte” ma siamo ben lontani dal concetto di paradiso se le tasse si mangiano un terzo dei ricavi…

Ora che ogni cosa è illuminata, che i fatti sono chiari, possiamo analizzare il finanziamento e valutare se ci sono gli estremi di applicazione del DL Liquidità. Vedremo se hanno ragione i piddini Orlando e Felice nella loro contrarietà a mezzo social, oppure il sindacalista Bentivogli a definire il progetto una boccata di ossigeno.

FCA ha confermato con un comunicato ufficiale di essere in trattativa con il Governo italiano per ottenere un finanziamento fino a € 6,3 mld con durata tre anni e garanzia di SACE, società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti (CDP). La richiesta è in linea con i paletti fissati dal Decreto, per importo (max 25% dei ricavi), per durata e per prassi. Sopra € 1,5 mld viene meno l’automatico riconoscimento e va seguita un’istruttoria che coinvolge i dicasteri dell’Economia e Finanze e quello dello Sviluppo Economico. FCA dichiara che il prestito verrà destinato «esclusivamente alle attività italiane del Gruppo, al sostegno della filiera automotive in Italia, composta da circa 10mila piccole e medie imprese». Viene inoltre citato un «ampio piano di investimenti già presentato, come i recenti avvii della produzione dei nuovi modelli FCA in Italia». Per dare un’idea della dimensione italiana di FCA, si tratta di 55mila dipendenti diretti, in 16 stabilimenti produttivi e 26 poli di Ricerca. Ci sono poi i numeri impressionanti dell’indotto: più di 200.000 posti di lavoro presso i 5.500 sub-fornitori italiani e altri 120mila nelle 12mila imprese di vendita e assistenza. FCA è responsabile da sola del 40% del fatturato annuale dal settore italiano dei componenti automotive che cuba € 50 mld.

La parte interessante del finanziamento riguarda l’erogazione dei fondi direttamente a chi vanta un diritto nei confronti di FCA. Intesa Sanpaolo starebbe strutturando un innovativo meccanismo di conti dedicati su cui gestire i pagamenti alla filiera italiana dei fornitori di FCA, garantendo la ripartenza delle produzioni anche ad aziende che avrebbero difficile accesso al credito. Sarebbe un modello nuovo, in forza dell’importanza del settore per l’economia italiana (6,2% del PIL e 7% degli occupati del manifatturiero) che potrebbe però essere replicato anche per le altre filiere portanti italiane.

Più che preoccuparsi della prevedibile sede all’estero di una holding, forse i detrattori del piano farebbero bene a concentrarsi su altri aspetti della questione. Ad esempio, andrebbe letto il memorandum siglato tra FCA e PSA (gruppo automotive francese) per una fusione delle due società che potrebbe rendere l’Italia un comparto più periferico nel gruppo, con minori investimenti nel nostro paese. Di come verrà strutturata la fusione non si sa ancora molto ma ci sono due punti ben fermi: in venti pagine del bilancio si cita la nuova società con un nome di fantasia molto concludente: DutchCo. (letterale per società olandese). Non pare azzardato ipotizzare uno schema come l’attuale: sede legale in Olanda, fiscale in UK e sussidiarie che seguono la normativa del paese di residenza. Altro elemento, su cui qualche politico ha preso un abbaglio, è la questione del dividendo: era in effetti previsto un maxi premio agli azionisti per addolcire il processo di fusione, oltre un miliardo di euro. In seguito però all’emergenza Covid19 e alle manovre iniziate dagli Stati europei per sostenere le rispettive economie, entrambi gli sposi hanno rinunciato a questa dote iniziale, condizione inappellabile per poter iniziare ciascun per sé un’istruttoria per finanziamento della contingenza.

“Chi chiede soldi all’Italia, dovrebbe riportare la sede in Italia” è l’urlo populista che si sente ripetere in varie versioni. In un mondo perfetto, sarebbe condivisibile e quasi scontato. In un mondo complesso come l’alta finanza, appare una visione troppo provinciale, che non tiene conto da un lato di normative corrette e legittime che permettono a chi investe un capitale di trarne il massimo profitto; dall’altro, di quanto bene un’operazione come quella prospettata possa fare all’Italia, ai suoi lavoratori. Si dice “hanno già avuto tanto in passato” e quegli aiuti sì, dovrebbero far storcere i nasini, quei denari a fondo perduto mentre gli stabilimenti chiudevano. Ora siamo nell’opposta situazione di finanziamento privato (Intesa Sanpaolo e SACE sono aziende private, anche se SACE opera come Agenzia per il Credito all’Esportazione, o ECA, dello Stato italiano), che verrà restituito con tutti gli interessi in tre anni, le cui erogazioni non saranno libere bensì forniranno liquidità alle migliaia di aziende dell’indotto. Certo, ci sarà da vigilare sul rispetto degli impegni di investimenti, che in passato numerose aziende italiane hanno “dimenticato” troppo presto. L’ennesimo stato sottomesso, un FIAT voluntas tua, ce lo risparmieremmo volentieri. E ci sarà da fissare covenant precisi su investimenti e occupazione in Italia, anche post fusione.

Invece di indignarsi sullo spostamento, sarebbe utile chiedersi come mai lo Stato italiano fissi una “exit tax” minimalista per chi ci lascia (FCA avrebbe pagato circa € 170 mln, al tempo, con ricavi complessivi sui 100 miliardi) o perché siano quasi sparite le barriere di protezione sull’attività di CDP, azienda controllata dallo Stato ma con liquidità fornita dal sistema postale, dal piccolo risparmio dei fiduciosi e ignari pensionati italiani. Liquidità che trova utilizzi non sempre nobili, che viene garantita al sicuro da tutto ma poi non è certo lo sia davvero. Questa, evidentemente, è tutta un’altra storia.